Peter Mundy ha passato oltre trent’anni a definire la natura dell’autismo e delle disabilità dello sviluppo. Infine, ha raccolto molte delle proprie osservazioni in “Autismo e attenzione congiunta“, pubblicato in Italia da Fioriti Editore. Il libro intende gettar luce sul ruolo dell’attenzione congiunta nello sviluppo del disturbo dello spettro autistico, attingendo a dati prodotti da innumerevoli ricerche.
Non rivolto esclusivamente a ricercatori e professionisti, il testo di Mundy fornisce anche un’utile guida a genitori, insegnanti e coloro che fanno direttamente esperienza dell’autismo. In “Autismo e attenzione congiunta”, il lettore può ritrovare alcune certezze e frammenti di verità in un campo spesso dilaniato da prospettive contraddittorie.
“Rispetto ai fratellini che si sono sviluppati in modo tipico,” ha specificato Mundy, “quelli che hanno ricevuto le diagnosi di disturbo dello spettro autistico hanno mostrato, tra i 2 e i 6 mesi di vita, un declino rapido nel tempo passato a guardare i volti e gli occhi dei loro caregiver in un video. Questi fratellini DSA-positivi hanno anche mostrato un aumento nel tempo passato a guardare gli oggetti rispetto ai fratellini che non hanno poi ricevuto diagnosi. Questi dati erano molto in linea con l’ipotesi dell’orientamento sociale.
“Ma questi dati indicavano come i bambini con diagnosi di DSA in realtà mostravano all’inizio (a 2 mesi) maggiori livelli di fissazione degli occhi. Come gruppo, i fratellini DSA-positivi, rispetto ai fratellini DSA-negativi, mostravano livelli più bassi di contatto oculare solo a 6 mesi. Questo modello di crescita dell’attenzione”, spiega Mundy, “era incoerente con l’ipotesi dell’orientamento sociale, la quale sostiene che il DSA è caratterizzato sin dalla nascita da una ridotta tendenza a guardare i volti e gli occhi delle persone”.
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