Mentre i dati sostengono che in Italia le diagnosi di coronavirus sono oltre 2000, anche nel resto dell’Europa cominciano ad aumentare le persone risultate positive. Il nostro paese a livello globale segue solo la Corea del Sud e, ovviamente, la Cina, culla dell’epidemia. Ma cosa c’è dietro l’alta casistica italiana, esorbitante se paragonata a quella di paesi a noi vicini come Francia, Germania o Spagna?
Il coronavirus e il record italiano: responsabilità del test diagnostico?
Innanzitutto il test diagnostico. Il tampone faringeo è il principale strumento usato per effettuare diagnosi di Covid-19. Mentre in altri paesi vi è stato sottoposto solo chi presentava sintomi dell’infezione, in Italia è stato utilizzato diversamente, almeno fino agli ultimi giorni. Usarlo anche con coloro che non accusavano febbre, tosse, raffreddore o congiuntivite potrebbe aver comportato non solo un gran numero di risultati inconcludenti, perché effettuati forse in una fase della malattia in cui questa ancora non è identificabile, ma anche dei falsi positivi. Due su tre, ad esempio, di quelli identificati in Piemonte fino a ieri. Questo spiegherebbe l’impennata del numero di casi italiani, di gran lunga più numerosi di quelli dei paesi confinanti. Sarebbe quindi l’eccesso di scrupolo (e non l’esatto contrario) ad aver posto le basi per l’ondata di terrore cavalcata dai media che ha travolto il paese.
Esaminare persone sane, effettuando test diagnostici senza indicazioni cliniche di sorta, potrebbe aver comportato l’elevato numero statistico che ha seminato il panico. Purtroppo, però, l’ambito medico è ricco di casi simili. Oggi gli esami sono effettuati in continuazione e raramente medici e pazienti considerano i risultati con un sano scetticismo. Ne ha parlato Steven Hatch, seguendo la scia di Gotzsche, con “Una palla di neve nella tormenta”, pubblicato da Fioriti Editore. Il libro mette in luce quanta poca certezza fondi molte diagnosi e prognosi pronunciate dai medici. Non per sostituirsi ad essi, ma per interagire con loro in maniera più informata.
La storia di Mlodinow
Nel suo libro, tra i tanti temi trattati, Hatch racconta la storia di Mlodinow, un fisico in California che nel 1989 si sottopose a un test di routine richiesto dall’assicurazione. Risultò positivo all’HIV, quando esserlo equivaleva a una condanna a morte a causa di AIDS. Secondo il suo dottore, infatti, non gli restavano più di dieci anni da vivere. Nel corso delle settimane successive, Mlodinow si dedicò alla ricerca sul test dell’HIV, scoprendo infine che un test positivo del tutto casuale aveva buone probabilità di essere un errore. I dieci anni sono quindi diventati venti, poi trenta. Mlodinow è ancora vivo, e non è mai stato malato. Come è stato possibile un errore così grossolano da parte del suo medico?
Secondo Hatch, il motivo dell’errore del medico poggia sul test effettuato nonostante Mlodinow non presentasse alcun sintomo. “Se invece avesse avuto un’inattesa perdita di peso, moderata stanchezza e una tossetta persistente e secca proprio perché viveva in California all’epoca”, afferma l’autore, “la probabilità che il suo test positivo fosse realmente positivo sarebbe stata molto più alta”. Qualcosa che in Italia non sembra essere stato considerato nel trattare il coronavirus.
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