Cos’è un libro? Sull’oblio della lettura nell’era digitale
Giovanni Fioriti Editore, Roma 2021
di Anna Angelucci e Renata Puleo
con i disegni di Miriam Piro e Flavio Maracchia (chito)
“Che tipo di prova servirebbe per dimostrare, in tempi realistici e con la soddisfazione di chiunque, che la cultura dell’interazione con lo schermo stia arrecando cambiamenti a lungo termine su fenomeni diversi tra di loro, come empatia, consapevolezza, comprensione, identità?”
Così la neuroscienziata Susan Greenfield, nel suo “Mind Change. Cambiamento mentale. Come le tecnologie digitali stanno lasciando un’impronta nel nostro cervello”, in risposta all’accusa di eccessivo allarmismo da parte di chi caldeggia le potenzialità del digitale. Già, che tipo di prova serve?
Viviamo in un mondo investito da processi socioeconomici globali, dall’accelerazione esponenziale di uno sviluppo tecnologico che, oltre a modificare condizioni, modi e strumenti di produzione e consumo, agisce collettivamente sulle strutture sociali e sui nostri abiti mentali, anche attraverso forme di manipolazione sempre più insinuanti che producono l’elaborazione spontanea di condotte conformi al sistema. Con i nuovi media digitali, in cui ogni dimensione creativa, riflessiva e immaginativa del pensiero viene schiacciata su una funzione ipercomunicativa, le informazioni superano vecchi perimetri e confini spazio-temporali. Il rischio è quello di essere sopraffatti da un profluvio crescente di notizie in cui sfuma non solo la distinzione certa tra vero e falso, tra bugia e verità, tra ciò che accade realmente e ciò che viene comunicato pubblicamente, ma anche la possibilità stessa di elaborare una cornice di lettura e di interpretazione critica, che rifletta sui dati per selezionarli e per dare loro un significato.
In quello che è stato definito il “collasso dei contesti”, la connessione digitale totale istituisce una condizione pervasiva di coercizione alla conformità. Corriamo il rischio di disimparare a pensare, a immaginare, a capire, ma anche ad agire in modo responsabile, autodeterminato e soggettivamente critico, a non saper più costruire o ricostruire una prospettiva di senso, a partire dal riconoscimento dei nessi sincronici e diacronici, di cause e effetti in ciò che ci accade o accade intorno a noi. L’analfabetismo funzionale (di cui tanto si parla, e tanto poco, in realtà, si indaga) altro non è che questa incapacità sempre più diffusa di comprendere noi stessi e il reale, nella sua complessa architettura materiale e simbolica.
E’ sotto questo profilo che il libro, la lettura e la letteratura possono costituire un fattore protettivo, antagonista al dominio dell’immaginario digitale. Possono consentirci di mantenere quella capacità narrativa, cognitiva e metacognitiva senza uguali che ci caratterizza come specie Homo sapiens e con cui ci orientiamo fin da piccoli, dando un senso al nostro essere nel mondo proprio interrogandoci sull’esistenza nostra e altrui.
“Un libro non è altro che una particolare disposizione di ventisei simboli fonetici, dieci cifre e circa otto segni di interpunzione, eppure mentre il lettore li guarda, davanti agli occhi si materializzano l’eruzione del Vesuvio o la battaglia di Waterloo. Però oggi non è più necessario che questi circuiti li costruiscano i genitori e gli insegnanti. Ora ci sono spettacoli prodotti da professionisti, con ottimi attori e scenografie, suoni e musiche molto convincenti. Ora c’è la Rete. Certi circuiti non ci servono più, come non ci serve più sapere andare a cavallo. Quelli di noi che li hanno sviluppati possono guardare in faccia una persona e vedervi dentro delle storie; per tutti gli altri, una faccia è soltanto una faccia” (K. Vonnegut, Un uomo senza patria).
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