di Anna Angelucci
La notizia degli 85 milioni di euro appena stanziati dal Miur per “consentire alle istituzioni scolastiche di dotarsi immediatamente di piattaforme e di strumenti digitali utili per l’apprendimento a distanza, nonché per formare il personale scolastico sulle metodologie e le tecniche per la didattica a distanza” non può affatto rallegrare: l’emergenza coronavirus sembra aver accelerato la spinta all’innovazione digitale (intesa come unica innovazione possibile) che sulla scuola preme da anni. Ci aspetta una torsione pedagogica tecnocratica che agirà non solo sulla libertà d’insegnamento ma soprattutto sulla formazione e sull’educazione degli studenti. Una digitalizzazione di massa dei processi di conoscenza che, dopo aver fagocitato la ricerca scientifica – prodotta, diffusa e, come spiega bene Domenico Fiormonte, “di fatto appaltata a oligopoli privati” (qui) – farà passi da gigante anche tra i banchi di scuola, innescando quei processi di dematerializzazione, disumanizzazione, cambiamento mentale e soprattutto controllo sociale che, inevitabilmente, essa porta con sé.
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A ottobre 2019, i dati del rapporto Eurydice “Digital Education at school in Europe” indicavano che nell’educazione digitale il vecchio continente non era ancora allineato con i sistemi scolastici del Nord America e dell’estremo Oriente. L’obiettivo, ovvero il raggiungimento delle 21 competenze digitali declinate nello European Digital Competence Framework for Citizen (DigComp), è ancora lungi dall’essere raggiunto, dal momento che solo in una minoranza dei paesi europei l’educazione digitale costituisce una materia autonoma all’interno del curriculum. E sono ancora pochi, tutto sommato, i paesi che hanno costruito set di competenze digitali per i docenti, che li formano e li valutano sistematicamente. Lo studio della rete Eurydice si sofferma molto sulle strategie politiche nazionali messe in atto dai paesi membri dell’Unione europea per promuovere l’educazione digitale a scuola, a cominciare dai piani di investimento nelle infrastrutture digitali, evidentemente un elemento chiave per implementarla. Non dimentichiamo che l’Agenda Digitale Europea è uno dei sette pilastri della strategia Europa 2020, che indica gli obiettivi di crescita: “Lo scopo dell’Agenda Digitale è fare leva sul potenziale delle tecnologie ICT per favorire innovazione, progresso e crescita economica, avendo come obiettivo principale lo sviluppo del mercato unico digitale”, leggiamo nel sito del Ministero per la Pubblica Amministrazione.
In totale coerenza con il quadro europeo, l’Italia si è dotata di una propria Agenda Digitale e di una Agenzia preposta alla realizzazione di quegli obiettivi, in primis nel sistema d’istruzione. Sul suo sito, appare un articolo di Annalisa Buffardi, ricercatrice dell’Indire, Istituto Nazionale di Documentazione, Innovazione e Ricerca Educativa che sottolinea le “opportunità del digitale”: “L’emergenza ha reso evidente l’architettura digitale che accompagna la nuova configurazione sociale del XXI secolo. Valorizzando ambienti e pratiche digitali ed ampliandone il raggio di estensione istituzionale e amministrativo”. L’autrice ha ben chiari alcuni aspetti della questione: il problema della gratuità e della libertà d’accesso alle piattaforme, il tema della libera scelta degli insegnanti e le ombre che le necessità precauzionali adottate per contenere il contagio gettano sulle libertà individuali e sociali e sulla nostra stessa democrazia. Occorre avere ben chiari questi elementi, non farsi obnubilare dalla paura del contagio e non cedere sulla vigilanza rispetto ai tanti fattori di contesto.
Intanto guardiamo le piattaforme di cui dispongono, per ora gratuitamente, il MIUR e le scuole, implementate in questa fase d’emergenza: Google, con la sua Google suite for Education, Microsoft, multinazionali e aziende private italiane (qui).
Siamo nel regno di GAFAM, l’acronimo che indica le grandi multinazionali del digitale, che ne detengono il monopolio a livello globale e che ora entrano a gamba tesa nella scuola statale italiana.
Ponendo problemi di privacy, certo, di cattura di dati sensibili, di intrusioni indebite da parte di altri utenti o dei gestori delle piattaforme, di inserimento coatto in grandi database senza il proprio consenso, come scrive Luca Chiesi (qui), ma ponendo soprattutto problemi di pervasività di grandi imprese private nella scuola pubblica, di rigidità dei dispositivi tecnologici standardizzati, di divaricazione dei livelli di apprendimento, di nuove esclusioni e marginalizzazioni e soprattutto di condizionamento intrinseco della Google-sfera anche sotto il profilo culturale, pedagogico e didattico, come sottolinea Marco Meotto (qui).
Una pioggia di 85 milioni da spendere subito per implementare la didattica a distanza e per formare i docenti al digitale avendo come unico obiettivo quello indicato dall’Agenda Digitale Europea, ovvero “lo sviluppo del mercato unico digitale”. A vantaggio economico di chi? Con chi stipulerà accordi e contratti il Miur? E quanto saranno efficaci questi investimenti ‘tempestivi’ in un settore dall’obsolescenza rapidissima? Questa spesa è uno scandalo, la privatizzazione del sistema educativo che si cela dietro la falsa promessa di una tecnologia salvifica è uno scandalo. È una condizione inaccettabile, ancor più nei tempi cupi che viviamo, in una crisi economica devastante, mentre servono gli ospedali e i dispositivi medici, mentre servono aule luminose e vere e non scuole che cadono a pezzi, mentre i nostri stipendi diventano sempre più miserevoli, mentre mancano e continueranno a mancare insegnanti di sostegno e tempo pieno, mentre si calpesta senza alcuno scrupolo la mediazione irrinunciabile della relazione umana nei processi di conoscenza in nome del profitto e del mercato.
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