Il decision making, la capacità di prendere decisioni, è un processo complesso che segna l’itinerario delle nostre vite. Tuttavia, implica anche l’abilità di riconoscere conseguenze positive o negative che possono derivare da una scelta. Non avere una spiccata capacità in questo senso significa essere afflitti da una “miopia per il futuro” e compiere azioni impulsive, poco ragionate e causa di rischi non necessari.
Agnese Ciberti e colleghi, in uno studio pubblicato su Clinical Neuropsychiatry, rivista scientifica open access pubblicata da Fioriti Editore, hanno esplorato la correlazione tra ridotte capacità di decision making e i disturbi alimentari. Coloro che ne soffrono, infatti, sembrano preferire ricompense immediate rispetto a vantaggi maggiori nel medio termine. E’ il caso di coloro che soffrono di anoressia, bulimia e di binge-eating, che rischiano purtroppo gravi conseguenze a lungo termine.
Deficit nel decision making legati ai disturbi alimentari: continuare la ricerca per aumentare prevenzione
Ciberti e colleghi hanno quindi reclutato 51 pazienti affetti da disturbi alimentari e 28 sani per dimostrare la correlazione tra disturbo alimentare e problemi nella capacità di prendere decisioni. I risultati hanno dimostrato l’effettiva limitata capacità nel prendere decisioni di coloro che soffrono di anoressia e bulimia, mentre i risultati di coloro che soffrono di binge-eating non sono lontani da quelli del gruppo sano. Curiosamente, i pazienti che soffrono di anoressia e bulimia spesso si rivelavano pienamente a conoscenza delle conseguenze negative delle loro azioni. Tuttavia, l’impulso di ottenere una ricompensa a breve termine li spingeva comunque a optare per il comportamento meno lungimirante.
Lo studio ha quindi fornito ulteriore supporto a coloro che ritengono i deficit nel decision making strettamente legati ai disturbi alimentari. Il binge-eating rappresenta l’eccezione. I problemi nel decision making e l’impulsività sono quindi fenomeni di rilevo e fattori che hanno ripercussioni nella terapia per trattare i disturbi alimentari. Approfondire gli studi in tal senso può avere conseguenze positive non solo ai fini della ricerca ma anche in ambienti clinici. Infatti, identificare pazienti che rischiano di sviluppare disturbi alimentari e una maggiore comprensione delle dimensioni psicologiche da trattare potrebbe aiutare a prevenire il manifestarsi delle conseguenze negative.
Lo studio di Ciberti e colleghi è disponibile su Clinical Neuropsychiatry. Se volete approfondire l’argomento, potete consultarlo integralmente, così come gli altri interessanti studi pubblicati nell’ultimo numero.
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