di Carlo Alfredo Clerici, Dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia, Università degli Studi di Milano
e Maura Massimino, Struttura Complessa Pediatria, Fondazione IRCCS, Istituto Nazionale dei Tumori, Milano
La pandemia da Covid-19 ha avuto un effetto di travolgente sorpresa anche sulle nazioni più industrializzate. Dopo i primi momenti di incertezza è diventato evidente che non ci si sarebbe liberati in pochi giorni di una minaccia tanto invisibile quanto insidiosa. Le risposte collettive messe in atto contro la pandemia sono state da un lato tecnologiche, con il potenziamento delle indispensabili strutture di terapia d’urgenza, dall’altro le difese si sono fondate su pratiche come l’isolamento e la quarantena che portano con sé echi arcaici risalenti alle grandi epidemie di epoche antiche.
Un dato nuovo è stato lo svilupparsi della pandemia sotto lo sguardo panottico delle tecnologie moderne che ha consentito l’aggiornamento in tempo reale del numero esatto di contagiati e di deceduti. La malattia epidemica ha portato rapidi mutamenti nelle abitudini, nelle pratiche e nei valori. La stretta di mano è stata bandita e i contatti ravvicinati tra persone sono diventati da evitare. Ciò che poteva essere considerato fino a oggi come virtù e coraggio, come il continuare a lavorare anche se influenzati, è diventato l’esempio di una condotta censurabile e rischiosa. Esporsi senza mascherina o attraversare la città in bicicletta per recarsi al lavoro sono diventati argomenti validi per un linciaggio.
Mentre lo sguardo delle cronache è concentrato sui reparti di terapia intensiva dove si combatte la dura lotta contro le manifestazioni più gravi del Covid-19, riteniamo utile non perdere di vista altri ambiti molto delicati del nostro sistema assistenziale. Vogliamo qui condividere qualche riflessione sulle attività e i servizi ospedalieri di psicologia clinica di consultazione e di psichiatria di liaison dedicati al trattamento del disagio psichico nei pazienti con patologie organiche e più in generale sulle prassi di sostegno e accoglienza degli ammalati.
Conseguenze sulle pratiche assistenziali sulla salute mentale
In questo periodo di emergenza le pratiche assistenziali sulla salute mentale, in particolare in ospedale, hanno subito necessari adattamenti e mutamenti a partire proprio da attività che nel corso degli anni erano divenute ormai dovunque diffuse e consolidate. Molti reparti ospedalieri negli ultimi anni hanno intrapreso misure di adattamento (a volte sotto la denominazione di “umanizzazione”) come l’estensione degli orari di visita, la creazione di spazi confortevoli di permanenza, l’apertura al ricevimento dei congiunti e il lavoro di èquipe multidisciplinari che comprendono oltre ai medici, gli infermieri e gli operatori socio-sanitari, anche psicologi, assistenti sociali, educatori, insegnanti e altre figure professionali.
L’epidemia di Coronavirus ha disgregato molte delle routine e delle prassi assistenziali. Non raramente in occasione dell’epidemia attività quali il supporto psicologico diretto, il lavoro educativo e l’assistenza spirituale sono state considerate futili, se non persino pericolosi veicoli di contagio e quindi come tali da sospendere.
È apparso complesso, anche da parte degli operatori più esperti, bilanciare la prudenza con i doveri assistenziali e un certo slancio vocazionale. È la prima grande crisi in cui le persone sono così separate dal rischio di contagio e nello stesso tempo sono tanto e persino troppo in contatto. Questa situazione sollecita in ogni caso a ripensare alle pratiche della salute mentale nell’ambito della cura medica.
Il Covid-19 minaccia le relazioni
Le relazioni (che difficilmente possono essere valutate seguendo la logica economica) sono, come sempre, un aspetto più importante anche quando paiono a rischio di essere vettori di contagi virali (oltre che emotivi). E le relazioni sono messe in pericolo dovunque. Scriveva pochi giorni fa un clinico in risposta alla notizia della sospensione dei servizi educativi nel suo reparto:
Stavo pensando a “volete andarvene anche voi”. Faccio anche io il bilancio di un mese “incoronato”.
Ai miei bambini è rimasto solo il cancro, una mamma o un papà. E noi.
Niente educatori, niente insegnanti, niente volontari.
Niente visite.
Dei piccoli Gesù crocifissi che guardano qualche povera donna e povero uomo cui tocca pure riciclare le mascherine. E se la vita sarà il loro destino porteranno in giro le nostre cicatrici.
Si pensa che tutto quanto era considerato scontato, quindi indispensabile, è stato tolto. Pensare a chi ci ha “abbandonati” per dovere istituzionale non ci toglie il pensiero di chi avrebbe potuto farsi sentire per vicinanza personale. Chiedere “come state, come stanno i pazienti, posso fare qualcosa da casa, posso fare qualcosa perché esisto come persona al di là del mio ruolo” era ed è possibile. Ma troppo spesso non è avvenuto. Chiudersi in casa è stato troppo spesso chiudere attenzione ed affetto responsabile.
Cosa accadrà dopo la crisi?
È difficile pensare che, se arriverà un “poi”, chi è stato così lontano potrà reclamarlo uguale al “prima”. Se lo sarà formalmente, perché lo impone l’istituzione o il contratto professionale, non lo sarà sicuramente per i rapporti personali, per la stima, la confidenza, la progettualità, che rende gioioso anche un lavoro difficile. Medicare tutto questo sarà un lavoro difficile, se non impossibile.
Se è ancora presto per capire cosa possa insegnare l’epidemia di Covid-19, la proposta è di condividere esperienze e pratiche messe in atto spontaneamente dai servizi, in mancanza di indicazioni certe ed evidence-based. Le prime indicazioni della letteratura riportano pochi elementi di base:
- Protezione del personale.
- Riduzione del contatto diretto con il paziente.
- Uso del contatto indiretto con il paziente.
Ma quanta parte di un servizio di consultazione/liaison può essere svolta attraverso modalità indirette (ad esempio sedute telematiche)? Quanto è necessario garantire la continuità di misure di accoglienza e supporto, non soltanto clinico, per evitare ripercussioni emotive a lungo termine in contesti dove le patologie hanno mortalità molto più elevata dispetto al coronavirus.
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