di Anna Angelucci.
John Ioannidis, medico e studioso di fama mondiale, specializzato in malattie infettive ed epidemiologia, docente di Medicine, Health Research and Policy e di Biomedical Data Science presso la Stanford University School of Medicine, ha pubblicato lo scorso 30 aprile, con Eran Bendavid ed altri autori, l’articolo scientifico “COVID-19 Antibody Seroprevalence in Santa Clara County, California“.
Le conclusioni dell’articolo sono le seguenti: “The estimated population prevalence of SARS-CoV-2 antibodies in Santa Clara County implies that the infection may be much more widespread than indicated by the number of confirmed cases. More studies are needed to improve precision of prevalence estimates. Locally-derived population prevalence estimates should be used to calibrate epidemic and mortality projections”.
Ovvero: una presumibile maggior contagiosità del virus rispetto al numero ufficiale dei casi confermati; la necessità di un maggior numero di studi clinici per migliorare la precisione delle stime; l’uso delle statistiche effettuate su campioni della popolazione per calibrare l’epidemia e le proiezioni di mortalità.
Il 17 maggio scorso il quotidiano Il Manifesto ha pubblicato in Italia un articolo sull’argomento di Luca Tancredi Barone intitolato “Dal guru Ioannidis un sostegno interessato alla fine del lockdown” in cui si ipotizza fin dal titolo, sulla scorta di quanto affermato dalla giornalista americana Stephanie M.Lee, che John Ioannidis avrebbe artatamente minimizzato la gravità della malattia ed espresso in quel suo studio di aprile un “sostegno interessato alla fine del lockdown”. Si tratta di un’accusa piuttosto grave, rivolta ad un medico tra i più autorevoli e citati dell’intera comunità accademica mondiale.
Le accuse della Lee, pubblicate il 15 maggio sul sito americano BuzzFeed News, riprese da Tancredi Barone, sono molteplici: l’articolo di Ioannidis era solo un pre-print; gli autori hanno usato le statistiche in modo non corretto; una fonte anonima avrebbe affermato che uno dei finanziatori della ricerca co-firmata da Ioannidis fosse David Neeleman, proprietario di una compagnia aerea privata e noto difensore negli USA della riapertura delle attività economiche e produttive; infine, che ci sono prove che altri ricercatori abbiano avvertito gli autori circa la non affidabilità dei test usati.
L’articolo del Manifesto ha suscitato parecchia meraviglia, perplessità e sdegno anche nella comunità scientifica italiana, posta improvvisamente di fronte all’ipotesi della corruzione e della non attendibilità scientifica di un medico e ricercatore famoso e pluripremiato, per molti davvero un punto di riferimento. Così, ho ritenuto doveroso scrivere a John Ioannidis per chiedergli la sua versione dei fatti. E questa è la sua risposta:
“L’articolo pubblicato su BuzzFeed News è un pessimo esempio di giornalismo d’inchiesta spazzatura. Il “Santa Clara Study” è stato l’articolo più intensamente sottoposto a revisione di tutta la mia carriera. Abbiamo chiesto a un grandissimo numero di scienziati autorevoli di revisionarlo sia a Stanford sia al di fuori di Stanford, e lo abbiamo pubblicato come pre-print proprio per accogliervi i commenti della parte migliore della comunità scientifica. Li abbiamo raccolti tutti nella versione revisionata dell’articolo, poi pubblicamente depositato. Il principale ricercatore, Eran Bandavid [primo firmatario dell’articolo, ndr] ha usato i procedimenti più imparziali per finanziare lo studio, in modo da assicurare che nessun estraneo potesse mai influenzare l’impianto, la conduzione, l’analisi o la presentazione dello studio stesso: l’università di Stanford ha un conto per donazioni libere al Development Office, attraverso il quale ciascun cittadino può fare una donazione all’università. Il Development Office non ci rivela i nomi dei moltissimi cittadini che contribuiscono con donazioni all’università. Inoltre la notizia che i risultati del “Santa Clara study” sono fuori dagli schemi non è vera, poiché questi risultati sono stati corroborati da molti altri studi, inclusi gli studi del Los Angeles County pubblicati nel Journal of American Medical Association, una dozzina di altri studi presentati come full papers e molti altri, preceduti da comunicati stampa.
Personalmente – conclude Ioannidis – e non mette neanche conto dirlo, non ho mai ricevuto un dollaro da tutte le ricerche che ho svolto e i lavori che ho pubblicato sul Covid-19 e non ho assolutamente alcun conflitto d’interesse. Sono semplicemente interessato alla verità (qualunque essa sia) e a salvare vite umane”.
La risposta di Ioannidis, oltre a chiarire gli aspetti personali della vicenda, mette in luce il gigantesco problema dei finanziamenti della ricerca scientifica e della libertà di studiosi e scienziati nella scelta e nella conduzione delle loro ricerche. E’ il tema del conflitto d’interesse, che in queste settimane di incertezza, paura e bisogno di rassicurazione, sembra passato inopinatamente in secondo piano, e non solo in Italia. Oppure, come sembrerebbe in questo caso e come vediamo in molte altre circostanze, usato da alcuni media come carburante di una macchina del fango che lavora senza sosta e senza confini contro la vittima di turno.
La certezza della mancanza di qualsivoglia conflitto d’interesse è essenziale per garantire la fiducia dei cittadini negli scienziati, nelle istituzioni scientifiche internazionali e nelle organizzazioni preposte alla tutela della salute della popolazione di tutto il mondo, Organizzazione Mondiale della Sanità in primis.
Robert Desowitz, nel suo “Chi ha dato la Pinta alla Santa Maria” (Fioriti Editore, 1998) più di vent’anni fa scrisse a proposito dell’importanza della libertà della ricerca medica dagli interessi economici delle aziende farmaceutiche e dalle riforme politiche non disinteressate, come quelle che riducono, ad esempio, i finanziamenti per la ricerca di base a vantaggio della ricerca applicata e finalizzata ai brevetti, dimenticando che spesso le scoperte più importanti sono partite da ricerche apparentemente poco utili o improduttive. Nel suo libro, significativamente, Desowitz scriveva: “Tra il 1950 e il 1960 gli scienziati biomedici accademici erano i Bramini mentre i ricercatori delle aziende farmaceutiche erano gli Intoccabili. Quelli dell’industria, come erano solitamente definiti in tono dispregiativo, erano addirittura banditi dalle associazioni professionali, come la Società Americana di farmacoterapia”.
Oggi, al contrario, i privati e i rappresentanti delle grandi aziende multinazionali sono accolti nelle università e nel mondo della ricerca scientifica con tutti gli onori (tanto più laddove si registra un arretramento dello Stato nei finanziamenti pubblici diretti e indiretti) e spesso occupano posti di rilievo negli organismi internazionali di osservazione, controllo e prevenzione della salute dei cittadini. A queste condizioni, il sospetto dell’opinione pubblica informata è più che legittimo. E se è sufficiente chiedere ad un ricercatore di dichiarare esplicitamente i suoi eventuali coinvolgimenti in settori economici privati affini al campo della ricerca scientifica che svolge nelle istituzioni pubbliche, quale può essere, a livelli decisionali ed economici più elevati e con interessi rilevanti in gioco (pensiamo, ad esempio, alla partita sui farmaci e sui vaccini), la garanzia di onestà che tuteli davvero i cittadini e mantenga salda e senza cedimenti la fiducia dell’opinione pubblica in una scienza che lavora per il bene comune e non per l’interesse privato?
Infine, tornando al contenuto dell’articolo di Ioannidis da cui siamo partiti: il problema del Covid 19 e le sue effettive caratteristiche epidemiologiche. In Italia abbiamo avuto un confinamento molto lungo e radicale, basato sul presupposto dell’assoluta gravità della malattia. Dal 9 marzo al 3 maggio, si è interrotta per decreto d’emergenza gran parte dell’attività produttiva del paese e tutti i suoi 60 milioni di abitanti hanno dovuto sottostare a misure stringenti di segregazione domestica. Questa drastica scelta di politica sanitaria si è resa necessaria, da una parte, per evitare il collasso di un sistema sanitario nazionale pubblico molto provato dall’affollamento degli ospedali registrato nel mese di febbraio e, dall’altra, dal principio etico della salvaguardia, ad ogni costo, della salute di tutti i cittadini, nessuno escluso.
In realtà, sappiamo che sono stati commessi molti errori, politici e sanitari, che si sommano ai ritardi nella gestione del momento contingente e alle scelte politiche e sanitarie scellerate del passato che, nel contesto emergenziale, si sono rivelate esiziali. Il risultato paradossale è che oggi contiamo decine di migliaia di italiani morti, soprattutto anziani e soprattutto al Nord, ma anche un sistema economico messo a dura prova dal lockdown, un debito pubblico aumentato a dismisura, livelli drammatici di disoccupazione e una crisi psichica e sociale senza precedenti alle porte. Cosa abbiamo imparato da questa drammatica esperienza? Siamo in grado di comprendere quali sono gli errori che non vanno mai più ripetuti, le scelte sbagliate da ripianare, le responsabilità da riconoscere e stigmatizzare? A distanza di mesi dall’inizio dell’emergenza, i nostri comitati tecnico-scientifici e i nostri decisori politici hanno messo in campo tutte le misure necessarie per calibrare, come suggerisce Ioannidis nelle conclusioni del suo articolo, le proiezioni statistiche dell’epidemia e della sua mortalità e dunque per dare alla popolazione un messaggio corretto e affidabile?
L’illustre scienziato afferma che le conclusioni del suo studio sono confermate da molte altre ricerche altamente qualificate. La pandemia di Covid 19 sarebbe caratterizzata da un’alta percentuale di contagiosità e dunque, di conseguenza, da una bassa percentuale di mortalità. Forse, se i Governi calibrassero davvero meglio le loro proiezioni, le persone sarebbero meno impaurite rispetto a quanto lo sono state e lo sono ancora, e potrebbero riflettere con calma sul proprio futuro e sul futuro dell’umanità, che non appare certo a rischio d’estinzione in ragione del coronavirus.
Potremmo essere tutti meno spaventati, meno paralizzati e più resilienti rispetto alla nostra vita, alla vita sul pianeta e alla vita del pianeta, senza perdere di vista la necessaria prudenza ma con una maggiore capacità proattiva di immaginare i cambiamenti antropologici e materiali indispensabili alla salvaguardia di una significativa esistenza naturale e sociale.
E potremmo essere pronti a lottare per difendere una vita piena, soddisfacente, nel mondo fisico, senza cedere ai profittatori di turno, all’erta dietro ogni catastrofe. Per una vita umana, che valga davvero ancora la pena di essere vissuta.
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