di Anna Angelucci
Con buona pace di Margareth Thatcher, per la quale “non esiste la società, esistono solo gli individui”, noi esseri umani come molti altri mammiferi siamo una specie sociale. La nostra sopravvivenza dipende in vari gradi dalla co-regolazione del nostro stato neurofisiologico attraverso la relazione sociale. Le caratteristiche fondamentali della co-regolazione (reciprocità – capacità di stabilire legami – fiducia) risuonano attraverso il nostro sistema nervoso e ottimizzano una funzione omeostatica, provvedendo alla connessione neurobiologica tra salute mentale e salute fisica.
Secondo il biologo evoluzionista T. Dobzhanskj è stata proprio questa nostra capacità di creare legami piuttosto che la forza fisica a garantirci il successo evoluzionistico su altre specie animali, perché “la sopravvivenza spesso richiede aiuto reciproco e cooperazione”. Troppo spesso siamo pronti a dimenticarlo, preferendo alla desiderabile social catena di leopardiana memoria una competizione insensata e odiosa, in nome di un effimero, risibile vantaggio personale.
Che le relazioni sociali, il contatto umano, l’interazione fisica, lo scambio e il sostegno reciproco siano importantissimi, lo sappiamo per esperienza diretta. Lo sperimentiamo con i nostri figli, con i nostri studenti, con i nostri colleghi di lavoro, con i nostri vicini di casa, con i nostri amici, con i nostri cari. Uno sguardo, un sorriso affettuoso, una frase detta con dolcezza attivano quel processo spontaneo di co-regolazione del nostro sistema nervoso – definito da Stephen Porges, autore della Teoria Polivagale, neurocezione – che contribuisce alla salvaguardia della nostra salute fisica e mentale.
Pensiamo al bambino appena nato e all’importanza dello sguardo congiunto con quello della madre, agli effetti lenitivi del canto della sua ninna nanna o del tocco leggero delle sue carezze. L’attaccamento nasce, e poi cresce nel tempo, proprio così: attraverso mani, occhi, parole, voci, corpi che comunicano. E’ col corpo e nel corpo che esistiamo e incontriamo l’Altro, anche a scuola. C’è dunque, come spiega ancora Porges, un “imperativo biologico” ineludibile alla relazione incarnata, pena la fine dell’essere umano.
Oggi, questa situazione straordinaria e fin troppo prolungata di distanziamento sociale (o meglio, asociale) ci ha sottratto reciprocamente il corpo dell’Altro. Bambini, adulti, anziani isolati nelle proprie case per un tempo indefinito, costretti ad usare dispositivi digitali per la relazione a distanza. Invece della presenza fisica dell’Altro, che ci coinvolge attivamente nella interazione spontanea vis-a-vis, il surrogato dell’immagine dell’Altro su uno schermo. Ma il contatto virtuale è spersonalizzato, distante, asimmetrico e asincrono, foriero di fraintendimenti e privo della fisicità necessaria per vivere. La sua costitutiva dematerializzazione non provvede il nostro sistema nervoso della presenza fisica e della reciprocità necessaria per mettere in moto la co-regolazione e la capacità di contatto. Altro che competenze trasversali e soft skills prescritte dai signori Invalsi! In questo preciso momento storico stiamo sperimentando la perdita della cosa più preziosa che abbiamo: la possibilità di leggere la mente dell’Altro attraverso lo sguardo, attraverso la gestualità, la prossemica, l’incontro dei corpi agito liberamente nella realtà del mondo. Stiamo sperimentando la perdita del contatto fisico che garantisce la nostra efficienza vitale, allo stesso tempo fisica e mentale. Quanti malati di Covid sono morti anche perché sottratti al contatto vitale con i loro cari? Quanti bambini e adolescenti con difficoltà psicologiche o sociali stanno subendo le ferite non rimarginabili del trauma dell’isolamento e della segregazione domestica? Quanti studenti con bisogni educativi speciali sono scivolati nel nulla dell’esclusione perché sottratti al contatto vitale con i loro insegnanti?
Nell’insensata frenesia di riprogrammare il futuro in una condizione ricorrente di emergenza sanitaria, stiamo disegnando un nuovo mondo sociale disumano dominato dal virus, governato dagli strumenti digitali e privato dei corpi. Nelle professioni e nel tempo libero, a scuola e all’università, nelle situazioni ordinarie e straordinarie, nell’amministrazione, nella produzione e nella commercializzazione di beni e servizi. Telelavoro in tutti i settori possibili, salvo la necessità di mantenere una massa di bassa manovalanza nei settori della produzione materiale in cui non si può neanche immaginare quanto misere saranno le condizioni di lavoro e di tutela. Per gli altri, per quelli che un lavoro lo avranno ancora dopo un lockdown così prolungato da mettere drammaticamente in ginocchio l’intero settore produttivo, smart working, telemedicina, processo telematico, telecomunicazione, didattica a distanza. I decisori politici, rivelatisi in questa circostanza totalmente incapaci, cronicamente in ritardo sull’evoluzione dell’emergenza e costretti da questo ritardo a draconiane misure d’eccezione dagli effetti economici e sociali devastanti, mentre il Parlamento è letteralmente sparito dal nostro orizzonte visivo, hanno esternalizzato il governo dello stato di cose presenti ai tecnici, cosiddetti esperti. Quante task force sono all’opera in questo momento per provvedere al destino degli italiani? E, oltre tutto, mentre noi italiani siamo immersi in un frullatore impazzito di dati e indicazioni spesso contrastanti, paralizzati dalla spettacolarizzazione mediatica della malattia, da statistiche insensate sui contagi e sui morti e dalla manipolazione di coscienze ormai ridotte a poltiglia, siamo sicuri che esse agiscano tutte del tutto immuni da conflitti di interesse?
Il coronavirus sta accelerando fortemente la transizione al mondo digitale, senza che ci sia la certezza scientifica che questo distanziamento sociale istituzionalizzato sia davvero ineludibile pena la sopravvivenza della specie, ma con la certezza assoluta delle spinte del mondo economico che tengono in pugno il mondo politico, nel quadro di uno stato d’eccezione che ha trasformato il sentimento della paura in un palese dispositivo di governo delle condotte, in una regressione della democrazia e in una deriva securitaria in Italia davvero senza precedenti. Il furto dei nostri corpi ne è la dimostrazione plastica, con il corollario insopportabile della cancellazione della scuola e dell’università, i luoghi preposti alla formazione culturale e sociale, alla trasmissione del sapere, alla fondazione del pensiero critico dell’uomo che si interroga su sé stesso e sul mondo. Quei luoghi che nei paesi civili sono stati, al contrario preservati e tenuti nella cura che meritano, in gran parte riaperti o in corso di riapertura graduale con le dovute misure di sicurezza, mentre noi, starnazzando istericamente, immaginiamo di non riaprirli neanche a settembre.
Il documento degli esperti ministeriali che disegna la scuola del futuro (anche) fuori dalle mura della scuola è agghiacciante. La riorganizzazione di una scuola senza corpi, non a caso affidata al capo dell’ennesima task force ministeriale Patrizio Bianchi, ordinario di economia applicata ed esperto di organizzazione industriale: una scuola ‘in presenza’ destinata, come un’unica classe differenziale, ai soli studenti con handicap o con bisogni educativi speciali e a quelli dei professionali che devono imparare un mestiere e tutti gli altri ‘a distanza’ davanti alla televisione o a un PC, a sorbirsi passivamente pillole di sapere standardizzato e serializzato da fantomatiche “menti didattiche”. Una scuola in cui si osa rivendicare una assiomatica, fattuale, dogmatica “pedagogia della distanza”, una cacotopia insopportabile anche per il più crudele dei maestri, in cui si osa immaginare la definitiva rinuncia a quell’imperativo biologico della relazione incorporata e creaturale in cui risiede la nostra unica possibilità di continuare a esistere come esseri umani.
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