di Renata Puleo
Relazione al convegno “Di cosa parliamo quando parliamo di Didattica Digitale Integrata?”, organizzato dall’Associazione Nazionale “Per la scuola della Repubblica” il 16 dicembre 2020.
“Niente è connesso a tutto, tutto è connesso a qualcosa”: così la filosofa americana Donna Haraway nel suo ultimo libro dedicato al nostro pianeta infetto, alla nuova età che si inaugura dopo l’antropocene e il capitalocene, il chuthlucene. Il metaplasmo sembra alludere ai racconti dell’orrore di Lowecraft ma, precisa la Haraway, l’hapax rinvia a due radici greche, Khthộn e Kainos, tempo-spazio, eredità densa di imprestiti, e responso abile, risposta creativa, il vivere e il morire della Natura, tutta stretta nell’alleanza fra creature di ogni specie.
Ora, per allearsi occorre accettare di superare i confini della propria individualità e farsi con-dividui, farsi relazione, consapevoli del nostro inevitabile far parte di una rete, di esser sfaccettata struttura sempre indebitata con l’Altro[1].
Questo ragionare di confini e di alleanze serve ad occuparmi della parola relazione, oggi abusata fino alla banalità e alla perdita di senso, provando a situarla sotto un diverso ordine simbolico[2]. In ambito educativo, non a caso, si è registrato l’abuso più corrosivo, nel momento in cui i luoghi istituzionali della formazione, e quelli privati della cura famigliare, sono stati sconvolti dalla pandemia, con il suo tragico correlato di distanza che non è solo misura igienica, ma sociale.
Nella promiscuità delle case, nella lontananza dai luoghi abituali di lavoro e di socializzazione, nella scuola, la parola relazione ha abitato il lessico quotidiano e il discorso politico. I messaggi dei media hanno diffuso l’immagine di una domesticità bonaria, da riscoprire, e di una socialità digitale sostitutiva rispetto alla perdita di frequentazioni amicali, di spazi pubblici, di stili lavorativi, di azioni politiche, così come li avevamo conosciuti, ancora ignari di quanto già la tecnologia fosse pronta per questo passo. I dispositivi di connessione hanno assolto al ruolo di spazi intermedi dove realizzare relazioni virtuali, interregni dove incontrarsi, mentre solo la voce e l’immagine dicevano e mostravano i corpi assenti.
Nella scuola, la didattica a distanza, praticata durante il periodo più duro della sospensione della vita abituale (lockdown), e ripresa dopo il periodo estivo, già praticata in molte università, impone il ripensamento situato della parola relazione.
Intanto due domande, l’una frutto del mio scetticismo di educatrice della vecchia guardia, la seconda del diffuso entusiasmo degli innovatori:
1. Come si mantiene la relazione senza la mediazione dei corpi?
2. La relazione educativa, quella che fa da terreno di coltura alla conoscenza, in età evolutiva e oltre, è agevolata da un dispositivo tecnologico?
Ogni domanda – come ritaglio di realtà in cui situare parole –dovrebbe portare con sé una ricerca capace di aprire ad ulteriori riflessioni, il dubbio dovrebbe essere nutrito di capacità di intrattenersi con una tradizione e tradirla: pertanto, lego domande e dubbi alla grana, al tessuto, di cui è fatta la relazione fra creature. Soprattutto oggi, in cui individualismo egoistico – nato secoli fa, ma nutrito dal neoliberismo culturale ed economico – e desolante solitudine del singolo, vengono – con evidenza dettata dai tempi infetti – uniti nel nodo problematico intorno alla capacità umana, sapiens, di rappresentare e rappresentarsi, il sé, il e nel Mondo.
Il filosofo francese Gilbert Simondon, riscoperto dopo un oblio rotto solo negli anni Sessanta e di recente da Paolo Virno, si era già attestato sulla fluidità, sui non definibili confini dell’individuo, che situa a carico di una dimensione transindividuale. Ciascuno di noi – ogni eucariota, cellula, organismo, specie – è frutto di un processo, la sua presunta essenza è tale solo nel movimento delle relazioni e degli incontri, il suo equilibrio è metastabile. La meta-stabilità ricorda il lungo, mai finito, processo di assimilazione e di accomodamento della conoscenza di piagetiana memoria, percorso di vita fatto di fermo-immagini, la cui stabilità di rappresentazione viene subito sfocata da altre, diverse, modalità di de-finirsi e de-finire. Simondon, nella sua elaborazione, rimanda, non a caso, a Spinoza e a Vygotskij.
Nel filosofo seicentesco la sostanza è articolata, specificata, in attributi e modi, sempre infiniti, con conseguente corredo di affetti, nel senso di impressioni reciproche, relate, percezioni dei corpi in carne e ossa, incontri la cui fisicità rende conto del bene e del male del nostro vivere. Lo psicologo russo vede nella relazione primaria con la Madre, e successivamente, nello scambio con coloro con cui si sta corpo a corpo nei processi di apprendimento, il formarsi della zona prossimale di sviluppo. Zona, area che si attiva nel gioco della differenza fra i soggetti e le loro esperienze, nell’incrocio e nel conflitto dei saperi, delle modalità, delle attitudini, disponendo a conoscenze e a scoperte che non ci appartengono singolarmente. Produzioni che sono frutto di ciò che è prossimo, il nostro prossimo, potenziale a cui può ambire solo un corpo collettivo, meta-corporeo, nella relazione anche fra le menti che, pensando, sempre immaginano corpi[3].
Così il mondo fisico – la Natura – non ci appare più come una costellazione di oggetti con proprietà definibili in classi, ma si rende a noi in reti, in rizomi, in cui ogni singolarità è un nodo[4]. Tassonomie e classi necessarie ma sempre grossolane, in-stabili, troppo larghe per dire l’in-dividuo, troppo strette per dire il con-dividuo.
Torno ai dispositivi di connessione, alla nostra società affetta da taylorismo digitale, una definizione per dire l’invasione nella sfera privata di un modo di produzione che dalla fabbrica è percolato nella domesticità, aggettivato come intelligente, efficace efficiente, veloce, come si incarica di segnalarci il pluri-semantico aggettivo smart[5].
Abbiamo ancora bisogno di relazioni fra i corpi, si chiede Teresa Numerico, filosofa della logica, nell’era degli algoritmi a guida del mondo on line? Assolutamente sì, e cita il film di Ken Loach dove uno smarrito pensionato si accorge che tutti i suoi saperi manuali, attraverso i quali realizza ogni genere di manufatto, sono inutili per riempire un modulo di richiesta di sussidio[6]. Se anche la smart city, in avanzata fase di realizzazione a Toronto o a Barcellona, può gestire (rendere migliore?) la vita dei suoi cittadini attraverso l’elaborazione di montagne di dati, per fare davvero città servono ancora e sempre le persone, serve l’agorà per gli incontri dove scambiare parole e pane, serve che l’accesso ai dispositivi dia sempre la possibilità di un doppio ingresso, virtuale e fisico[7].
E la scuola? Dopo lo sconcerto, spesso l’inefficacia della modalità di insegnamento/apprendimento on line, la difficoltà e l’impossibilità di accesso per troppi alunni e insegnanti non nativi digitali, il giocattolo ha fatto il suo lavoro fascinoso, persuasivo, seduttivo. Riuscire a fare scuola, malgrado il disastro delle piattaforme privatissime e non gestite a livello politico centrale, per molti ha rappresentato un piccolo successo personale, una specie di vincita alla tombola delle connessioni. I docenti migliori e più esperti hanno saputo padroneggiare il mezzo, servendosene come misura emergenziale, al servizio di una didattica legata al quadro di una buona relazione educativa precedente e ai principi di una pedagogia orientata ai fini costituzionali dell’insegnamento pubblico. Altri, da sempre affezionati a trasmettere in maniera autoritaria e discendente i saperi disciplinari, abituati alla valutazione standardizzata in stile INVALSI, hanno realizzato le performances peggiori.
Non avevano bisogno di corpi, già prima appena intravisti. I bambini e i ragazzi sempre curiosi e, censo permettendo, già dalla primissima infanzia abituati a cellulari, a computer, alla frequentazione di social, all’inizio sono stati al gioco, ma quando questo si è prolungato nel tempo ha cessato di essere tale. Stanchi, depressi dall’isolamento, costretti nelle loro case in convivenze innaturali con gli adulti, gli adolescenti; troppo dipendenti da un famigliare (guarda caso, la mamma …) i bambini; la scuola privata della sua caratteristica di ambiente di apprendimento decondizionante rispetto alla famiglia e al contesto sociale di appartenenza. Tutto si mescola e si confonde in una salsa acidula e quella relazione primaria con gli adulti di riferimento che abbisogna di altre ibridazioni sociali, esterne, per farsi viatico di crescita serena si è fatta pesantemente totalizzante. Altro aspetto – quasi comico – è quello per cui il “niente imbrogli” garantito dal Computer Based, alla maniera dei test invalsiani, universitari e concorsuali, si è trasformato in una gigantesca corsa alla risposta giusta: la mamma risponde per il bambino, lo studente sorprende il professore con prestazioni stranamente mai realizzate prima. Allora, ci si può chiedere come si assesterà questo enorme pasticcio mediatico, in cui anche la Lingua diventa semplice strumento per gestire scambi e informazioni mirati all’uso locale, contestuale al collegamento fra macchine.
Vado indietro solo di un anno che appare un secolo, che sembra averci portato oltre una rivoluzione il cui esito è un progressivo regresso, e trovo una mano di maestra che guida quella di un bambino con matita e foglio, vedo un insegnante di matematica che costruisce con i suoi alunni un artefatto geometrico, vedo un professore che parlando di Dante si muove fra i banchi o discute con tutta una classe la traduzione di un brano di Seneca. Nostalgia passatista, mi si dice, oggi lo strumentario è vasto, amichevole, completo, efficace, sempre disponibile. Se è vero com’è vero che non c’è mai – mi si consenta il gioco di parole – una Verità vera, e dunque unica, mantengo vivo il domandare, quello iniziale, quello che può venire da alcune convinzioni subito provvisorie. Per utilizzare al meglio delle nostre capacità e delle sue possibilità uno strumento, bisogna avere sempre chiari i fini, gli scopi politici, sapere perché e dove esso nasce come tale. Le domande intorno all’origine e al suo affermarsi vanno collocate in un quadro di praxis gramsciana in cui ogni azione, ogni uso, ogni costume e comportamento da quell’uso derivati, deve portare a riflessione teorica e da questa ritornare all’azione, in una circolarità ininterrotta[8].
Ora, la domanda-chiave riguarda se tutto ciò è ancora praticabile al tempo della società della conoscenza in cui ogni nostro umano capitale (pratico e teorico) è immesso nella catena del valore economico, di mercato. Siamo già nel periodo post-rivoluzionario di un cambiamento senza ritorno? Ci ibrideremo con le macchine come nuove chimere e non come simbionti, con-individui, relati con i corpi? Ne parla Donna Haraway, ne parlò già anni fa la filosofa Rosy Braidotti, Bernard Stiegler ci è tornato di recente: umani proteizzati la cui memoria è esternalizzata grazie alla tecnologia che elimina ogni intelligenza, questa sì, singolare, in nome di un’efficienza disumanizzante[9]. Gli umani che noi siamo, la relazione che noi siamo forse sono astrazioni, lacerto di vecchie ideologie incapaci di intercettare il presente? Forse l’Homo sapiens ha già accusato scacco matto da parte del potente giocatore tecnologico? Se è così, se questi sono il processo e l’esito scontato, è chiaro che alla scuola si sta chiedendo un contributo fondamentale perché la tecnologia registri i vantaggi della sua vittoria, la scuola essendo il sistema dei luoghi in cui vivono le creature piccole, le più esposte e plasmabili.
[1] F. Remotti, Somiglianze. Una via per la convivenza Laterza, Bari-Roma 2019; Id., Contro l’identità, Laterza, Bari-Roma 2012.
[2] Relazione nella accezione più diffusa: rapporto fra variabili colte in situazione determinata secondo le forme dell’identità, della successione, dell’opposizione, della coesistenza, della dipendenza, della causalità. Si noti il gioco fra denotazione e connotazione, sempre in situazione contestuale. U. Galimberti Dizionario di Psicologia, Garzanti, Torino 1999.
[3] G. Simondon, L’individuazione psichica e collettiva, DeriveApprodi, Roma 2001; P. Virno, I. Moltitudine e principio di individuazione. II. Gli angeli e il general intellect. L’individuazione in Duns Scoto e Gilbert Simondon Essais, www.filosofia.it, 2001/2005; E. Balibar, V. Morfino (a cura di), Il Transindividuale. Soggetti, Relazioni, Mutazioni,Mimesis, Milano 2014; B. Spinoza, Ethica, UTET, Torino,ì 1972; L. S. Vygotsckij, Pensiero e Linguaggio, Laterza, Bari-Roma 1992.
[4] C. Rovelli, Helgoland, Adelphi, Milano 2020.
[5] machina-Deriveapprodi.com.
[6] Conversazione in Fori Virtuali www.caudosindaco.it 01/12/2020. T. Numerico, D. Fiormonte, F. Tomasi, L’umanista digitale, Il Mulino, Bologna 2010; K. Loach, Io, Daniel Blake, GB 2016.
[7] J. Butler, Corpi che contano, Feltrinelli, Milano 1996.
[8] M. Mustè, Marxismo e filosofia della praxis, Viella, Roma 2018.
[9] R. Braidotti, Madri, mostri e macchine, il manifesto, Roma 1996; B. Stiegler, État de choc. Bệtise et savoir au XXI siècle, Mille et une nuit, FR 2012
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