di Donatella Marazziti, Benjamin Buemann e Kerstin Uvnäs-Moberg
pubblicato su The World Journal of Biological Psychiatry
OSSITOCINA CORONAVIRUS – Attualmente la maggior parte dei paesi europei, ma anche moltissime nazioni in tutto il mondo, come India e Brasile, stanno affrontando una nuova ondata di pandemia da Covid-19. Ancora una volta, dobbiamo chiudere settori delle società europee per proteggere le persone più vulnerabili e prevenire un sovraccarico dei nostri sistemi sanitari, anche se queste misure comportano gravi conseguenze per l’economia e la qualità complessiva della vita delle persone. Oltre a questo, bisogna sottolineare che coloro che sopravvivono risultano più o meno indeboliti dalle conseguenze a lungo termine della malattia.
Senza dubbio, i fattori biologici che rendono alcuni gruppi più vulnerabili di altri dovrebbero essere presi in maggiore considerazione quando si debbano intraprendere azioni per ridurre il numero di morbilità, decessi e pazienti che richiedono cure intensive. A questo proposito, gli anziani costituiscono il gruppo più ampio a rischio per tutti questi parametri. In generale, infatti, il sistema immunitario negli anziani è meno efficiente e quindi deve svolgere un compito più difficile nella lotta alle malattie infettive. Ciò è attribuibile perlopiù a una riduzione della capacità di mobilitare le cellule immunitarie che attaccano specificamente l’invasore, il che consente al nemico (nel caso attuale, il virus SARS-COV2) di moltiplicarsi in misura maggiore. Pertanto, verrà evocata una risposta immunitaria aspecifica più forte, come tentativo alternativo di eliminare il virus. Tuttavia, essendo appunto una risposta aspecifica, questo sistema è più incline anche a infliggere danni alle cellule sane che possono portare allo scompenso di organi vitali come polmoni, cuore e reni. Il fatto che gli anziani siano meno in grado di mobilitare cellule specifiche del sistema immunitario è il risultato di una perdita generale della capacità di reclutare cellule staminali, che servono a rinnovare e adattare tessuti e organi alle diverse sfide, e che semplicemente svaniscono con l’età. Nel corso della vita le nostre cellule sono esposte a danni chimici che ne compromettono progressivamente le funzioni e le portano alla morte. In genere, possono essere sostituite da nuove cellule che a volte emergono dalla differenziazione delle cellule staminali, che sono esse stesse in una certa misura suscettibili agli attacchi chimici, derivanti da composti con ossigeno che si formano come sottoprodotti del metabolismo, ma anche dal sistema immunitario per uccidere i batteri e le cellule infettate dai virus. Questo significa che da un lato il sistema immunitario deve essere sempre pronto a combattere i germi e i virus, mentre, dall’altro, la sua attività deve essere mantenuta a un livello in cui i danni ai nostri tessuti e organi siano mantenuti al minimo. Purtroppo, negli anziani l’attività basale del sistema immunitario non specifico è elevata e provoca un aumento del danno a tessuti, organi e addirittura al sistema immunitario specifico.
L’invecchiamento è stato considerato una sorta di corrosione, ma l’analogia con il ferro arrugginito è molto semplicistica, perché in qualche modo è un processo regolamentato. Se si confrontano maiali e uomini, i primi hanno una vita media molto più breve, sebbene come mammiferi abbiano una fisiologia e un metabolismo molto simili. In cima alla lista dei vertebrati abbiamo lo squalo della Groenlandia, che ha un’aspettativa di vita di 300 anni. Allora, perché la durata della vita può essere così variabile per i diversi organismi? Parte della spiegazione è che le specie utilizzano strategie diverse per sopravvivere e propagarsi. Negli organismi più primitivi, la capacità di adattarsi rapidamente ai cambiamenti improvvisi nell’ambiente è cruciale. Una parte della strategia per tali organismi è lo scambio di geni a intervalli molto brevi e, per le specie che si riproducono sessualmente, questo significa tempo di generazione breve. Tuttavia, un tasso di riproduzione veloce significa anche una durata della vita più corta per evitare la sovrappopolazione. Gli organismi devono quindi essere dotati di sistemi che consentano loro di degradarsi. Nei nematodi, la rimozione dei loro ovuli si traduce in una maggiore durata della vita, suggerendo che le uova secernono sostanze segnale che accelerano l’invecchiamento. Gli organismi superiori, d’altra parte, quali i mammiferi, hanno una strategia diversa. Qui, infatti, vengono compiuti sforzi maggiori per difendere l’ambiente interno del proprio corpo dai cambiamenti delle condizioni di vita. Dati i maggiori investimenti nella prole, tali organismi hanno tempi di generazione e durata di vita più lunghi. Ciò non vale per gli esseri umani che hanno un alto grado di socializzazione, con gli individui più anziani che possono svolgere un ruolo importante nel creare condizioni migliori per la riproduzione dei giovani. In tali organismi, la durata della vita è sovraregolata attraverso meccanismi di segnalazione che eliminano e rinnovano i componenti cellulari danneggiati. Ciò vale anche per gli ormoni che proteggono e attivano le cellule staminali e, allo stesso tempo, possono attenuare l’attività del sistema immunitario non specifico, ritardando così i processi degenerativi.
In ogni caso, va tenuto presente che anche nei mammiferi i processi degenerativi sono ancora regolati a un certo livello specie-specifico. Qui, il cervello gioca ovviamente un ruolo significativo, con l’ipotalamo come centro di controllo generale dell’organismo che difende l’omeostasi e presumibilmente controlla anche i processi di invecchiamento. Ciò è evidenziato da esperimenti sui topi, dove si è scoperto che l’impianto di giovani cellule staminali nell’ipotalamo posticipa l’invecchiamento dell’intero organismo. Un aumento correlato all’età dei livelli infiammatori basali in questa parte del cervello può essere un fattore importante, perché un altro studio sui topi ha dimostrato che i processi generali di invecchiamento potrebbero essere sia promossi che inibiti aumentando o diminuendo artificialmente il livello di infiammazione nell’ipotalamo.
Anche negli esseri umani, quasi non ci sono meccanismi di selezione naturale che causano una sovraregolazione della durata della vita oltre l’età di un nonno. Comunque, ciò non significa che sia impossibile sviluppare farmaci che stimolino i sistemi di segnalazione nelle cellule per contrastare ulteriormente i processi degenerativi. Questo può essere vero almeno per quelli legati all’infiammazione e in futuro potrebbe essere possibile prolungare artificialmente la vita attraverso questo meccanismo. C’è molto lavoro in corso su questo argomento sia in Cina che negli Stati Uniti, e si ritiene che questa ricerca probabilmente aumenterà costantemente, poiché vi è un enorme business legata ad essa. Si potrebbe sempre discutere se si tratti di una cosa positiva o una disgrazia, tuttavia, questo non è l’oggetto del nostro articolo.
I dati della ricerca suggeriscono che vari neurotrasmettitori potrebbero essere coinvolti nella regolazione di vari aspetti dei processi di invecchiamento nell’ipotalamo. La downregulation di alcuni ormoni che stimolano il ripristino dei tessuti sembra una costante dell’invecchiamento. Questo è vero per l’ormone della crescita in entrambi i sessi, mentre negli uomini la diminuzione del testosterone è vista come il risultato di una produzione ridotta dell’ormone di rilascio delle gonadotropine nel cervello. Nelle donne si verifica una drastica diminuzione di produzione degli estrogeni nelle ovaie con la menopausa che, di per sé, protegge alcuni tessuti dal danno, ma stimola anche la produzione di ossitocina nell’ipotalamo. Oltre a garantire il mantenimento dell’integrità ossea, dei muscoli scheletrici, del cuore e forse anche del sistema immunitario specifico, l’ossitocina ha un marcato effetto antinfiammatorio. Una diminuzione dell’attività di questo ormone, che probabilmente si verifica anche negli uomini, può quindi essere un importante fattore nella naturale accelerazione del processo di invecchiamento.
Anche la selezione naturale può regolare la durata della vita dei singoli individui all’interno di una popolazione o di una specie. Coloro che riescono a riprodursi possono essere favoriti rispetto a quelli che non partecipano alla propagazione della specie. Negli organismi primitivi, gli individui infertili sono solo un fattore che prende le risorse da coloro che si riproducono. È un processo vantaggioso se gli elementi improduttivi vengono eliminati il più rapidamente possibile tramite un potenziamento dei processi degenerativi, ad esempio da una bassa resistenza ai processi infiammatori. Al contrario, la resilienza e la longevità possono essere supportate negli individui che riescono a riprodursi, attraverso il rafforzamento del mantenimento dei tessuti e la capacità del sistema immunitario di combattere le infezioni. Tuttavia, tali meccanismi sono preservati anche in organismi altamente sviluppati come gli esseri umani? Forse sì, in una certa misura: infatti, possediamo sistemi di segnalazione che sostanzialmente non sono cambiati molto rispetto a quelli dei vermi. Questo vale anche per alcuni dei sistemi di segnalazione che coinvolgono la riproduzione. Pertanto, le sostanze di segnalazione responsabili dell’espulsione dei prodotti sessuali, ma che promuovono anche un comportamento orientato all’accoppiamento nei vermi, come l’ossitocina, si trovano in una versione leggermente modificata nei mammiferi, compreso l’uomo, dove tuttavia hanno mantenuto queste funzioni.
I neurotrasmettitori simili all’ossitocina esistono da circa 600 milioni di anni ed hanno quindi avuto tempo di acquisire molte altre funzioni oltre a quella di garantire la contrazione muscolare al momento dell’espulsione di sperma, uova, neonati e latte verso il mondo esterno. Questo perché si sono accoppiati ad altri sistemi di segnalazione all’interno delle cellule oltre a quelli che mediano la contrazione delle fibre nelle cellule muscolari. E’ ovviamente il caso delle cellule nervose, per cui il comportamento è stato regolato in modo da supportare la riproduzione, ma si è verificato anche con sistemi che promuovono il ripristino delle cellule e dei tessuti, compreso il sistema immunitario. Quest’ultimo concetto permette di ipotizzare che la forza e la sopravvivenza vengano promosse esclusivamente negli individui che si riproducono poiché alti livelli di sostanze simili all’ossitocina sono indicatori di riproduzione. Pertanto, si può sostenere che l’ossitocina abbia acquisito attraverso la selezione naturale un marcato effetto protettivo in modo che gli individui fertili non soccombano alle infezioni e alle crisi infiammatorie associate. In effetti, potrebbe essere l’effetto anti infiammatorio dell’ossitocina a proteggere le donne che hanno allattato al seno dallo sviluppare malattie cardiovascolari in età avanzata. Inoltre, l’attività generalmente più elevata attività dell’ossitocina nelle donne in premenopausa potrebbe contribuire al più efficiente metabolismo lipidico nelle donne giovani rispetto agli uomini della stessa età e, quindi, a spiegare come le malattie cardiovascolari si verifichino circa 10 anni più tardi nelle donne. Infine, l’ossitocina potrebbe anche svolgere un ruolo nella difesa complessivamente più forte delle donne contro le infezioni gravi.
Allora, cosa c’entra tutto questo con il Covid-19? Secondo noi, dovremmo testare l’ossitocina nel trattamento dei pazienti con questa malattia. Forse è difficile comprendere come una sostanza nota per lo più per il facilitare il parto e l’allattamento al seno possa avere un ruolo potenziale nel trattamento di una malattia così aggressiva come quella del Covid-19. Tuttavia, speriamo che gli argomenti biologici di cui sopra possano essere sufficienti a convincere qualche clinico a darle una possibilità. Un farmaco glucocorticoide, il desametasone, viene oggi somministrato ai pazienti con Covid-19 che presentano uno stato di iper-infiammazione in modo da contrastare i danni ai polmoni e ad altri organi vitali. Tuttavia, molti studi sia nell’uomo che negli animali hanno documentato un effetto antinfiammatorio dell’ossitocina che potrebbe essere paragonabile a quello dei glucocorticoidi. A differenza dell’impatto soppressivo di quest’ultimi sul sistema immunitario specifico, che può combattere selettivamente i virus, l’ossitocina potrebbe piuttosto rafforzare questo sistema. Infine, le proprietà rigenerative dell’ossitocina potrebbero contrastare le gravi conseguenze del Covid-19. Diversi gruppi di ricerca hanno perciò già proposto di utilizzare l’ossitocina per trattare i pazienti con Covid-19, ma per quanto ne sappiamo, tali studi clinici non sono stati ancora avviati.
Oltre a somministrare l’ossitocina tramite flebo ai pazienti critici, non si può escludere che la somministrazione generale di ossitocina agli anziani possa agire preventivamente per evitare un grave decorso di Covid-19. Gli anziani nelle case di cura potrebbero, quindi, ricevere regolarmente uno spray nasale a base di ossitocina. La somministrazione mediante questa via è stata testata in numerosi studi psichiatrici e risulta molto sicura. Finché non saremo in grado di distribuire un vaccino sicuro contro il Covid-19 alla popolazione generale o non avremo sviluppato un trattamento efficace contro la malattia, dobbiamo pensare, in alternativa, a proteggere almeno i gruppi vulnerabili. Questo potrebbe significare che i requisiti per l’isolamento sociale dei soggetti in età avanzata potrebbero essere ammorbiditi un po’, in un periodo come questo in cui si sono rese necessarie restrizioni più severe per le visite nelle case di riposo. Un’altra misura non convenzionale potrebbe essere quella di assicurarsi che i livelli di vitamina D negli immigrati non occidentali siano adeguati. Per motivi culturali ed a causa del loro fenotipo, queste persone sono soggette a carenza di vitamina D. Allo stesso tempo, sembrano essere un gruppo vulnerabile e, poiché costituiscono una parte importante del settore assistenziale, c’è il rischio che trasmettano l’infezione agli anziani fragili. Un nuovo studio clinico pilota spagnolo su pazienti Covid-19 ospedalizzati indica che un adeguato livello di vitamina D sembra essere di grande importanza per mantenere una funzione immunitaria ottimale. In tale studio, il trattamento con vitamina D ha dimostrato un effetto sostanziale nel prevenire uno sviluppo potenzialmente letale della malattia.
Siamo convinti che non ci sia nulla da perdere nella sperimentazione di composti secondo natura come l’ossitocina che praticamente è un anti-infiammatorio straordinario e non provoca significativi effetti collaterali.
Leggete anche l’articolo pubblicato su Clinical Neuropsychiatry, “Ossitocina, un possibile trattamento per il Covid-19? Tutto da guadagnare, nulla da perdere“, di Phuoc-Tan Diep, Benjamin Buemann, Kerstin Uvnäs-Mober, Donatella Marazziti e Sue Carter. Donatella Marazziti è anche autrice di “La Natura dell’Amore” e curatrice di “Psicofarmacoterapia Clinica. IV edizione“, entrambi pubblicati da Fioriti Editore.
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