di Anna Angelucci
Al lock down della popolazione si è accompagnato un lock in digitale altrettanto radicale. Che, se da una parte consente lo svolgimento di molte attività e importanti forme di comunicazione, dall’altra desta riflessione e preoccupazione per le sue implicazioni psicologiche e sociali. Rispetto alla scuola, in questo momento nessuna fuga in avanti sembra auspicabile. Nessuna frettolosa equiparazione o sostituzione definitiva della didattica digitale alle attività in presenza può apparire ragionevole o estranea a logiche extrascolastiche, in questo frangente. In cui la cautela è d’obbligo. In cui è d’obbligo che addetti ai lavori e decisori politici non plachino le loro ansie da prestazione o le angosce causate dalla gestione dell’emergenza con dichiarazioni d’intenti e investimenti faraonici che appaiono del tutto fuori luogo, in una condizione di crisi economica epocale. In cui è d’obbligo che non si ascoltino le sirene mortifere dei “piazzisti dell’istruzione” che pretenderebbero di imporre, come spiega bene Rossella Latempa (qui), distopiche forme di educazione e rieducazione digitale di massa (qui). Proviamo invece a disegnare i contorni emotivi di questa emergenza e l’orizzonte pedagogico in cui declinarla.
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La relazione educativa è, nella sua dimensione sociale, interpersonale e intersoggettiva. Si fonda sull’incontro tra il Sé e l’Altro, in una interlocuzione reciproca che presuppone, o attiva, un canale comunicativo quanto più possibile condiviso. Il suo grado di significatività è strettamente connesso all’intensità dell’empatia che si crea in questo incontro, in questo andare l’Uno verso l’Altro, ed è legato alla profondità della reciproca risonanza, ad un tempo intellettuale e affettiva, che co-regola le nostre emozioni, i nostri pensieri, i nostri comportamenti.
“Nessuno educa nessuno, nessuno si educa da solo, gli uomini si educano insieme, con la mediazione del mondo”, ci spiegava Paulo Freire cinquant’anni fa, negando che sia possibile separare l’uomo dal mondo o ragionare di un uomo astratto, senza riferimenti al mondo in cui vive. Il contesto, dunque, in cui agisce ed è agita la relazione educativa, appare, allo sguardo pedagogico, come una componente ineludibile dell’esperienza.
Viviamo da tre settimane in una situazione d’emergenza: la segregazione e il distanziamento sociale imposti dal timore del contagio del coronavirus. Le scuole sono chiuse. Tutte le attività sociali, sportive e ricreative, interrotte. Parchi e giardini vietati. La consegna è la reclusione assoluta: bambini e adolescenti non hanno alcuna occasione di incontro con i loro coetanei. Ad eccezione dei famigliari con cui convivono, non possono frequentare nessuno. E’ buona notizia di oggi che, finalmente, si preveda per i più piccoli la possibilità di una breve passeggiata all’aria aperta, comunque in sicurezza, a distanza dagli altri. Nel contempo, nei modi e nei tempi con cui è stato possibile realizzarle, le attività didattiche sono tuttavia continuate ‘a distanza’. Cosa significhi fare ‘didattica a distanza’, tanto più in una imprevedibile condizione di emergenza come quella che stiamo vivendo, richiederà pagine di analisi, di valutazione delle esperienze, di riflessione critica sui processi, prima che sui risultati.
Al lock down della popolazione si è accompagnato un lock in digitale altrettanto radicale, che se da una parte consente lo svolgimento di molte attività e importanti forme di comunicazione, dall’altra desta riflessione e preoccupazione per le sue implicazioni psicologiche e sociali. Rispetto alla scuola, in questo momento nessuna fuga in avanti sembra auspicabile. Nessuna frettolosa equiparazione o sostituzione definitiva della didattica digitale alle attività in presenza può apparire ragionevole o estranea a logiche extrascolastiche, in questo frangente. In cui la cautela è d’obbligo. In cui è d’obbligo che addetti ai lavori e decisori politici non plachino le loro ansie da prestazione o le angosce causate dalla gestione dell’emergenza con dichiarazioni d’intenti e investimenti faraonici che appaiono del tutto fuori luogo. In cui è d’obbligo che non si ascoltino le sirene mortifere dei “piazzisti dell’istruzione” che pretenderebbero, come spiega bene Rossella Latempa (qui), distopiche forme di educazione e rieducazione digitale di massa (qui).
Proviamo invece a disegnare i contorni emotivi di questa emergenza e l’orizzonte pedagogico in cui declinarla: viviamo in uno stato di sospensione della realtà, in una marcata alternanza di sensazioni destabilizzanti e in una diffusa incapacità di comprendere razionalmente quanto sta accadendo e di prevedere verosimilmente il futuro. Per certi versi – e forse per molti nel mondo – è una situazione talmente assurda e potenzialmente pericolosa nei suoi innumerevoli effetti da generare anche meccanismi di rimozione psichica. Se gli adulti e gli adolescenti sono preoccupati e/o impauriti dalla malattia e dai molti fattori di contesto, in primis quelli economici, pesantissimi, i bambini potrebbero trovarsi, paradossalmente, in una situazione ancora più difficile. Non riuscendo a capire esattamente il perché di questo radicale stravolgimento delle loro vite e magari percependo le emozioni negative dei loro adulti di riferimento, potrebbero essere ancora più spaventati e intimoriti e vivere una condizione molto vicina all’evento traumatico, perché sopraffatti dall’incapacità di integrare nella propria psiche le cognizioni e le emozioni legate all’esperienza eccezionale di reclusione e di distanziamento sociale che stanno vivendo.
E’ possibile, è pedagogicamente fondato, data questa condizione di sospensione della realtà, parlare di valutazione? E’ possibile parlare di voti, giudizi, scrutini, mentre si pratica una ‘didattica a distanza’ che cerca innanzitutto di mantenere viva la relazione umana se pure nel gelo straniante del mondo virtuale? Quello che si sta facendo e quello che è giusto fare, spontaneamente e non perché imposto da circolari ministeriali, è garantire la continuità della presenza dell’insegnante nella percezione dello studente, ma non fingendo che sia tutto come sempre. E non perché si assegna un compito o si spiega un argomento in un video ma perché si vuole far sentire che, anche se la scuola non c’è (perché la scuola non c’è più dall’8 marzo), l’insegnante c’è, sta lì, è presente, solo, davanti a uno schermo, solo anche lui, con un computer, uno smartphone o un semplice telefono; parla fisicamente a distanza ma non è emotivamente distante. E’ solo, come ogni suo studente, ma vuole in tutti i modi cercare di essere quanto più vicino a ciascuno di loro, per non lasciarli soli, per non sentirsi solo. E quindi li incoraggia, li sprona, assegna compiti, corregge da casa, registra videolezioni, allestisce attività online. Nell’incertezza, nel timore, per qualcuno nella paura, certamente nelle difficoltà sue e dei suoi studenti. Sapendo che magari non ce la fa, che tutto questo è un misero surrogato di ciò che si può fare quando si sta insieme, in classe, e sapendo che più d’un suo allievo magari è rimasto fuori, o è semplicemente rimasto indietro, e che recupererà, o forse no. Ma che c’è comunque bisogno di un’altra occasione.
Nel mentre, sussiegose circolari grondanti di retorica e falsa bonomia, messaggi ministeriali farciti di sgradevole sentimentalismo ricordano l’obbligo burocratico della rendicontazione e spingono melliflui alla valutazione, richiamando surrettiziamente autonomia, responsabilità, etica. Sullo sfondo, qualche rantolo accademico rintuzza la distinzione puntigliosa tra valutazione sommativa e formativa, in una desolante ecolalia. I docenti più sensibili e accorti hanno già sostituito la pratica della valutazione con quella cauta, discreta e quotidiana, dell’osservazione, indicandoci una strada da seguire anche dopo il coronavirus, mentre chi decide, chissà quanto ai vertici per ‘caso’, si aggrappa alla ‘necessità’ di una valutazione che sembra aver assunto una funzione teleonomica.
Nessuna pedagogia dell’emergenza ci viene proposta da un Ministero dell’istruzione e da un’università totalmente inadeguati. Nessun intervento della presidente dell’Invalsi, prof.ssa Anna Maria Ajello, ordinaria di Psicologia dello Sviluppo e Psicologia dell’educazione, che solleciti attenzione, cura, relazione, contatto, invitando a deporre preoccupazioni docimologiche burocratiche e formali, e invitando alla massima cautela nel pensare che una scuola digitale possa sostituire la scuola reale. Perché una valutazione ‘dematerializzata’, che pensi di fare a meno dei lunghi, faticosi percorsi di insegnamento/apprendimento ‘incarnati’ in cui risiede ogni nostra esperienza di conoscenza, è alienata e alienante. Perché ogni relazione umana, e ancor più ogni relazione educativa, si fonda sulla capacità di leggere la mente dell’Altro, a partire dal nostro sguardo sull’Altro. Uno sguardo reale, agito nella realtà fisica, non virtuale. E questo basterebbe non solo a deporre qualunque intenzionalità valutativa nel contesto attuale, ma anche a rimettere in causa l’intero apparato valutativo del sistema Invalsi, con i suoi test standardizzati computer based, con le sue logiche misurative stranianti, con la sua ossessione mitologica dell’oggettività.
La pandemia ha messo in crisi ogni certezza ma, a quanto pare, non quella della valutazione scolastica. Epidemiologi, virologi, politici, economisti, tutti in Italia tranne i docimologici ministeriali annaspano incerti nell’assoluta contezza di una condizione critica epocale.
Anna Rita Verardo (psicoterapeuta e responsabile del Centro Emdr Terapia di Roma) ci ricorda che in questo momento molti adulti e ragazzi sono davanti alla sommatoria di tutte le paure: la paura della malattia, la paura della morte, la paura della solitudine e la paura della miseria. È difficile discriminare ogni singolo caso. Ci sono famiglie e famiglie, figli e figli. La continuità didattica e gli spazi di apprendimento sono negati alle famiglie con maggiori criticità: non tutti hanno la possibilità di accedere alla didattica a distanza; ci sono famiglie dove ci sono state perdite di persone care, famiglie che vivono in condizioni di privazione materiale o affettiva. Tutto questo impone una riflessione. L’apprendimento è possibile se il cervello è libero di attivare la memoria di lavoro e le sue funzioni esecutive; imparare è possibile quando la parte corticale del cervello è libera e attiva e non ci sono condizioni di pericolo. La pandemia induce l’attivazione dei sistemi di difesa arcaici, l’isolamento genera la paura e la paura è antitetica all’apprendimento. Valutare uno studente oggi, qualora si insistesse nell’imporlo burocraticamente, significherebbe ritornare al passato; potranno essere facilitati i ragazzi che vivono in condizioni più “fortunate”: spazi, libri in casa, genitori istruiti, contesti sicuri, strumenti tecnologici d’avanguardia, ambienti culturalmente attrezzati, denaro, maggiore serenità. Ma cosa ne sarà di coloro che vivono condizioni di mancanza oggettiva o soggettiva di quella sicurezza necessaria e facilitante non solo il libero apprendimento, ma la stessa vita? Parlare di valutazione in questa condizione di privazione non spingerebbe i meno facilitati al sentimento di amarezza e frustrazione del sentirsi sempre e comunque figli di un dio minore?
Quest’anno scolastico funestato dal coronavirus può concludersi evidentemente solo con una ragionevole moratoria: la Ministra abbia il coraggio di dirlo, non continuando a demandare la responsabilità della scelta all’esito della didattica a distanza dei docenti. Alla sospensione delle nostre vite deve accompagnarsi una sospensione del giudizio, ed esami di Stato, ove possibili, adeguati al contesto emergenziale in cui stiamo vivendo, le cui conseguenze post-pandemiche potranno essere ancora peggiori.
Nel mentre, nella didattica a distanza, solo un’attenzione e una sensibilità stra-ordinarie, agite liberamente e senza pressioni indebite, possono mitigare le asperità dell’attuale emergenza pedagogica. Alla ripresa della scuola vera, nel momento in cui ci ritroveremo fisicamente insieme – docenti e docenti, studenti e studenti, docenti e studenti – ci sarà tempo e modo per elaborare collettivamente questa drammatica esperienza, mettendo da parte le tecnologie digitali, respingendo al mittente gli interessi economici e tecnocratici di chi ci vuole convincere che la didattica a distanza può sostituire quella in presenza. Riportando in classe libri e quaderni. E voci, sorrisi, sguardi, rimproveri, incoraggiamenti, ragionamenti, corpi.
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