di Anna Angelucci
Ora conteremo fino a dodici / e tutti resteremo fermi. / Una volta tanto sulla faccia della terra / non parliamo in nessuna lingua; / fermiamoci un istante / e non gesticoliamo tanto.
Sono i primi versi di una delle più belle poesie di Pablo Neruda, Restare in silenzio. Mi sono venuti in mente questa mattina, riflettendo sul profluvio di parole e di gesti, non di rado insensati e compulsivi, che stanno inondando queste nostre giornate preoccupate e turbate. Dichiarazioni contraddittorie e disorientanti di politici e scienziati, spettacolarizzazione e manipolazione giornalistica e televisiva, proliferazione di ogni sorta di fake news sui social media, diffusione indiscriminata della tradizionale retorica italiana, surreali e ineffabili comunicazioni istituzionali sovrapposte a pesanti intimidazioni poliziesche. Il tutto accompagnato dall’insistita necessità di introiettare il dispositivo del distanziamento sociale come mito della salvezza della vita e dall’accelerazione convulsa dell’uso delle nuove tecnologie informatiche digitali in tutti gli ambiti della nostra esistenza, personale e sociale, come falsa promessa di una possibile condizione umana. Sarà la biotecnopolitica a sconfiggere il Covid 19 e i virus che verranno, confinandoci in un’esistenza sempre più sorvegliata e virtuale?
Sulla scuola e nella scuola, questo parlare e questo agire convulso e compulsivo sta avendo effetti particolarmente dirompenti. La consegna immediata di continuare a distanza nel lock down come se fosse tutto come prima, come se non ci trovassimo tutti in una condizione alienata e straniante, tra segregazione domestica e isolamento sociale, ha innescato accelerazioni isteriche d’ogni tipo: dal volontarismo performativo ed esibizionistico del docente traslocato armi e bagagli on line senza perdere un minuto, con la sua paccottiglia improvvisata di compiti, interrogazioni, spiegazioni e naturalmente voti, o del suo alter ego, il docente proattivo, filosofo dell’informatica, che sapendola lunga sulla DAD, si rinchiude nella garitta d’avorio di un profilo facebook a magnificare l’efficienza di una confortevole didattica senza scuola (ovvero di una didattica senza vita), fino all’ansia dirigistica dei capi d’istituto più solerti, pronti a convocare collegi dei docenti, riunioni di dipartimento e consigli di classe a distanza fin dalle prime ore della chiusura delle scuole perché bisognava subito rimodulare, riorganizzare, rimestare e riperticare nelle miserie del PTOF, senza dimenticare il pathos ministerial-clericale del burocrate che invoca pace e bene per una dadattica in cui “nessuno resti in panchina, nessuno rimanga a bordo campo” con quel gergo calcistico allenato fin dai tempi del sodalizio Gelmini-Berlusconi, mentre la ministra della scuola, decreto dopo decreto, sgrana imperturbabile il suo rosario quotidiano di inconoscibili così è (se vi pare), nel coro cacofonico di richieste di confronto.
Forse sarebbe opportuno interrompere questo circolo vizioso di spinte, fughe in avanti, scelte inopportune. Forse sarebbe meglio usare questo momento per fermarci a pensare profondamente con i nostri studenti a quanto sta accadendo, per riflettere su tutte le implicazioni economiche, culturali, sociali, antropologiche di quanto sta accadendo, per meditare su quanto forse questo virus sia diventato funesto in un mondo naturale e politico dominato da un modello di vita interamente incentrato sul consumo, sul profitto e sullo sfruttamento; un mondo governato con la corruzione, la mediocrità e l’incompetenza di chi guarda all’oggi senza prevedere il domani. Per chiederci cosa vogliamo, e a quale normalità pensiamo, quando immaginiamo l’uscita dal tunnel.
Forse sarebbe opportuno fermarci un istante, smettere di gesticolare, come suggerisce Neruda, su smartphone e PC, e pensare alla paura che ha accompagnato la diffusione del contagio, alla paura che sta diventando dominante nel nostro immaginario e nella nostra vita reale, alla paura che accompagnerà il lento ritorno a condizioni ordinarie di esistenza, in cui ci ritroveremo tutti in grandissime difficoltà, molti in difficoltà drammatiche. Paura della malattia, paura della crisi economica e sociale, paura delle possibili derive securitarie e antidemocratiche, paura del distanziamento e del confinamento digitale, paura della nuova condizione umana che si profila al nostro comune orizzonte.
Forse sarebbe davvero opportuno ascoltare la voce dei poeti, e spegnere le tante, troppe voci che ci assordano, ci spingono, ci inducono, ci costringono, obnubilando le nostre coscienze e la nostra capacità di giudizio. E in questo vivo silenzio, a cui non gli economisti, non i politici, non i giornalisti, non i burocrati, non i venditori, ma i poeti – straordinariamente e disinteressatamente – ci invitano, provare a recuperare il senso profondo del nostro ruolo di insegnanti per i nostri studenti. Oggi, in questa condizione di drammatica incertezza e di pericolo diffuso, forse più necessario che mai: non acritici esecutori ma coltivatori del pensiero e del sentimento, incessanti studiosi, faticosamente educatori, osservatori attenti, interlocutori presenti, provvisorio punto di riferimento, umile guida.
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