di Carlo Alfredo Clerici,
Dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia, Università degli Studi di Milano
SSD Psicologia Clinica, Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori, Milano
Oggi, in una fase avanzata fase di lockdown (termine che fino a qualche settimana fa probabilmente usavano solo i fabbri americani) e quando ancora non si intravede il termine delle misure di emergenza, la maggior parte dei clinici si interroga su cosa sia possibile imparare dalla situazione attuale di lotta al Covid-19.
Mai come oggi nella storia si assiste ad un evento che sembra costituire un esperimento di salute mentale di portata planetaria e di cui possiamo osservare effetti e manifestazioni in tempo reale, tra un virus che pare fatto apposta per minare le radici stesse del nostro essere umani e attentare al pensiero portando le persone a separarsi fisicamente e a vivere l’altro come una minaccia per la vita.
Proseguiamo quindi qui qualche riflessione sulle attività di psichiatria e psicologia clinica di liaison anche per contribuire allo scambio di esperienze sulle risposte messe in atto per lo più spontaneamente dai professionisti e dai servizi, in assenza di evidenze in grado di indirizzare le attività in direzioni univoche. Le poche regole condivise sono state quelle di proteggersi, di ridurre il più possibile i contatti diretti con i pazienti e di ampliare l’uso di strumenti per mantenere contatti attraverso le tecnologie di comunicazione anche telematiche. Queste regole hanno prodotto alcuni effetti. L’operatività in presenza nei servizi è stata in molti casi fortemente ridotta. Ciò è avvenuto non senza scosse di assestamento anche sulla base di raccomandazioni e regole diverse tra ordini professionali.
In alcuni contesti si è sperimentata la fatica della dialettica tra due etiche, quella del lavoro, dove le modalità di lavoro a distanza compensano solo in parte l’assenza del lavoratore, e quella della tutela della salute dei singoli e della collettività (vedi art. 32 della Costituzione) quando la riduzione della circolazione delle persone è l’unica difesa contro il dilagare dell’epidemia. E questa dialettica, talora faticosa, è però anche una delle caratteristiche che rendono l’ambito sanitario una particolare palestra di sperimentazione sociale dato che i sistemi sanitari sono un crocevia unico di diritti fondamentali, aspetti scientifici, dimensioni biologiche, psicologiche, sociali, spirituali e antropologiche. I sistemi di cura si trovano inoltre a dover bilanciare la realizzazione di questi diritti – in Italia prevista dalla Costituzione – in modo etico ed attento alle necessità individuali.
Dove i servizi di supporto psicologico sono stati mantenuti con l’attività diretta in presenza degli operatori si sono manifestate difficoltà nuove e impreviste, anche da quanti erano abituati a lavorare in reparti dove è frequente l’uso di mascherine e altri dispositivi personali di protezione per alcune di pazienti (immunodepressi, trapiantati e altri). Le misure di prevenzione e contrasto dell’epidemia di Covid-19 rendono oggi necessario svolgere tutti i colloqui di valutazione e sostegno – come nel caso di tutte le altre interazioni in ospedale – con l’uso di regole di distanziamento e uso della mascherina chirurgica, se non di maggiori protezione nel caso di pazienti positivi all’infezione. Ben presto è diventato evidente come le distanze offuschino la lettura della comunicazione non verbale e confondano la lettura della prossemica e delle emozioni. Il volto mascherato può facilitare fraintendimenti e perfino aspetti di disinibizione comportamentale.
Non è più possibile stringersi la mano in segno di saluto ed è problematico dare un segno tangibile di partecipazione emotiva al dolore dell’altro dato che il contatto è possibile vettore di contagio. All’empatia si è affiancata una corrosiva paura dell’altro. Tutto questo mette gli operatori in una condizione sospesa tra razionalità biologica e tentativi di preservare la radice di ciò che ci rende umani. L’esperienza di chi lavora “in maschera” mostra – se mai ce ne fosse stato bisogno – come un colloquio psicologico o psichiatrico, la differenza poco importa, non sia semplice stringa di bit di informazioni. Di questo deve tenere conto lo spostamento delle attività per la salute mentale verso modalità telematiche, descritto talora con grande enfasi dai media. E occorre un ampio dibattito per leggere senza pregiudizio quanto dietro alla diffusione di iniziative altisonanti come servizi di consulenza online anche per nuovi pazienti o di supporto in teleconferenza per il personale sanitario impegnato nel contrasto all’epidemia di Covid-19 che talvolta lasciano intravedere neppure troppo in filigrana intenti pubblicitari o comprensibili necessità di inventare soluzioni per non affondare economicamente in un momento in cui è chiaro che nulla, per lungo tempo, forse per sempre, sarà come prima.
Certamente gli interventi telematici presentano aspetti di grande utilità ma non sono la panacea e non sono privi di effetti sul contesto più generale della professione della salute mentale. Se è comunicato in modo acritico che il lavoro per la salute mentale – sedute o colloqui che siano – può essere trasferito senza problemi a modalità online, oltre ad una grossolana semplificazione della complessità e unicità dei processi di relazione e interazione tra clinico e paziente, non è inverosimile temere un ulteriore svilimento professionale di attività che presentano ancora grandi ostacoli e difficoltà. Il lavoro psicologico è spesso inadeguatamente considerato e lo dimostra una pletora di psicologi sotto-occupati o impiegati in lavoro non psicologici. Alcuni vedono nel proliferare di proposte di consulenze online un rischio di squalifica e marginalizzazione della professione psicologica dopo la fase critica dell’epidemia.
Se passa il concetto, oltre al già noto “sono tutti un po’ psicologi” che il sostegno online funzioni come una prestazione diretta è in agguato il rischio che la professione finisca come quello dei giornalisti (tutti scriviamo e “pubblichiamo”) o dei fotografi (con uno smartphone in mano siamo tutti fotografi). Nell’attuale emergenza, tuttavia, esiste un bisogno enorme di supporto. I nuclei familiari sono spesso in crisi. Alcuni servizi psichiatrici mostrano un aumento dei TSO. Più in generale è diffuso nella società un radicale bisogno di umanità. Mai come oggi la paura della morte pervade la quotidianità. I malati di Covid muoiono soli e ai superstiti non resta neanche la possibilità di un rito funebre cui partecipare per il commiato con i propri cari.
Il supporto di pazienti già conosciuti non necessariamente per via telematica ma anche con una tradizionale telefonata può essere di grande aiuto per contrastare sensazioni di sconforto e abbandono. Le sperimentazioni di modalità di supporto anche con mezzi telematici sono preziosissime se entrano in un contributo di riflessione e sperimentazione in grado di descrivere, come sempre necessario per ogni intervento clinico, potenzialità, limiti, indicazioni e controindicazioni stavolta però anche a livello di percezione collettiva.
Questo articolo rinnova una proposta. Quella di parlare e dibattere dentro e fuori della comunità scientifica di come sostenere i bisogni emotivi in un mondo che è cambiato prima che ce ne potessimo accorgere. La proposta è che i clinici che affrontano esperienze di frontiera (e forse tutta la clinica oggi è una frontiera se non un fronte bellico) tengano nota delle loro esperienze. Le comunichino. Studino nuovi canali di confronto mentre le tradizionali supervisioni, i simposi e i seminari sono sospesi. Studino e pubblichino. In questo momento riflessione e cultura sono ancora due antidoti potenti se non contro il virus, probabilmente contro la paura.
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