di Anna Angelucci
L’emergenza coronavirus ci ha chiuso nelle nostre case. Noi docenti siamo stati i primi, con la sospensione delle attività didattiche. Bambini e adolescenti sono rimasti senza scuola, con tutte le difficoltà di una situazione inedita e molto difficile da gestire: l’impossibilità del reale. Mentre, nel contempo, è montato un martellamento mediatico senza precedenti, che ci restituiva o anticipava, amplificandole giorno dopo giorno e con effetti purtroppo ben noti, le contraddizioni, le incertezze, i cambiamenti di provvedimenti politici inevitabilmente mutevoli, dato il carattere di assoluta novità di un virus sconosciuto agli esperti.
Senza scuola e nell’impossibilità del reale, siamo lentamente sprofondati nel mondo virtuale, che è diventato l’unico abitabile, perché l’unico esente dal contagio. La second life ci ha risucchiato, assumendo le sembianze della nostra vita quotidiana, il nostro unico spazio sociale; per molti, e certo i più fortunati, l’unico possibile luogo di lavoro. Senza scuola, docenti e studenti si sono trasferiti online, assecondando necessariamente questa radicale dematerializzazione. Che tuttavia si sta realizzando in molti casi tra isterie, colpi di mano, forzature e imposizioni burocratiche non solo professionalmente insopportabili, ma soprattutto didatticamente e culturalmente inefficaci.
L’opzione tecnologica può essere declinata in tanti modi e la libertà d’insegnamento, ancora garantita dalla Costituzione, dovrebbe consentire la libera scelta degli strumenti e dei metodi, anche in situazioni d’emergenza come questa. Possiamo adottare piattaforme, usare diverse modalità di e-learning, fare videolezioni, ricorrere a Skype, whatsapp, registro elettronico, telefono, email ma possiamo anche proporre agli studenti di leggere libri, o di studiare da soli ragionevoli porzioni di programma, garantendo a chi è più in difficoltà il nostro sostegno a distanza nelle modalità che riteniamo più efficaci per ciascuno di loro. La pandemia non può imporci nessuna googlificazione dell’istruzione.
Ripensiamo alla nostra esperienza di studenti: ci sono state lezioni indimenticabili, con docenti straordinari, a scuola e all’università, ma quanto abbiamo anche studiato da soli? Perché adesso questo sembra impossibile, tanto più in un momento così straordinario, in cui stare a casa, alla scrivania, sui libri e non davanti a uno schermo, sembrerebbe la cosa più salutare e benefica che si possa fare?
Perché invece si preferisce alimentare, per fortuna non ovunque, questo caos teledidattico quotidiano a colpi di circolari minatorie, di pressioni verticistiche, di prescrizioni, di ipertrofiche richieste di rendicontazione formale, di quantificazione misurata di ciò che nella stragrande maggioranza dei casi è poco più che il nulla? Se fossi un dirigente scolastico, in questo momento mi preoccuperei di sapere quanti docenti hanno chiesto “come state?” agli studenti e alle loro famiglie, non quante ore hanno passato davanti a un computer.
C’è una diffusa torsione tecnologica, accelerata dall’eccezionalità della situazione, che mostra a tutti noi la sua inadeguatezza e il suo portato di alienazione.
Non si tratta solo di impreparazione o di imperizia. È che non si possono esautorare i corpi. La didattica è relazione tra corpi e menti incorporate, il resto è business. Probabilmente, in questo momento, una telefonata – non un messaggio, non un file audio, non un video – è la forma di comunicazione più significativa, perché consente comunque un contatto umano nel reale. Nessun insegnante si sta disinteressando alla preparazione dei suoi alunni, e non si preoccupa di garantire un senso a un anno scolastico che sembra volgere a un epilogo così imprevisto. La classe virtuale, il digitale, la tecnologia vecchia e nuova, rese necessarie in questo frangente straordinario ma sempre nel perimetro della nostra insindacabile libertà di utilizzo, non possono sostituire, né ora né mai, ciò che più conta davvero: la relazione incarnata – così imperfetta, anchilosata, sghemba ma reale – che costruiamo e continueremo a costruire a scuola.
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