di Anna Angelucci
Scuola, università, lavoro, tempo libero: sembra che la nostra intera vita, personale e sociale, stia cambiando radicalmente in nome di un’emergenza sanitaria ormai prolungata a tempo indefinito, dpcm dopo dpcm, conferenza stampa televisiva dopo conferenza stampa televisiva. Un’emergenza non più straordinaria e limitata nel tempo, bensì divenuta duratura e ordinaria. E, come tale, lentamente e progressivamente istituzionalizzata. Non dal Parlamento, che ha assunto una ‘distanza di protezione’ dal possibile contagio, dai cittadini e dai suoi doveri costituzionali piuttosto sconcertante, ma dal Governo, che ha esternalizzato ogni progettualità politica a decine di task force capitanate da tecnici di varia natura, dei quali è divenuto l’esecutivo. Mentre i media ufficiali, spettacolarizzando la malattia e snocciolando statistiche insensate sul rapporto tra contagiati e morti che non tiene conto dei numeri reali, contribuiscono a inocularci un timor panico che oggi si è fatto autogoverno dei nostri comportamenti più estremi: non vogliamo correre rischi finché non ci saranno cure e vaccino, quindi ben venga ogni eccezionale misura di sospensione della libera circolazione, del diritto alla vita sociale, all’iniziativa economica, all’istruzione. Perché questo è il vero significato in italiano della parola lockdown. Tutto ciò meriterebbe un’ampia riflessione critica.
Ma prendiamo la scuola, ottima cartina di tornasole e tornante paradigmatico dei processi in atto. Prima attività a essere chiusa su tutto il territorio italiano, ultima a essere riaperta. Quando? Come? Non lo sappiamo ancora. Si procede a tentoni, con un principio di precauzione che, seppure inizialmente giustificato sotto il profilo sanitario, non lo è affatto, né lo è mai stato, sotto il profilo pedagogico, psicologico e sociale, aspetti fondamentali e totalmente trascurati. In nessun paese d’Europa e, credo, del mondo, le scuole sono rimaste chiuse a tempo indeterminato. O non lo sono mai state totalmente, garantendo la continuità pedagogica; o hanno già riaperto, accogliendo gli studenti con cautele e precauzioni ma consentendo loro di ricominciare a fare lezione in presenza; o stanno per farlo in tempi brevissimi.
Da noi, invece, un trionfo di approssimazione politica – retorica e ipocrita – senza uguali ne ha accompagnato la chiusura definitiva, con ipotetica riapertura ‘a data da destinarsi’ come si leggerebbe sulla vetrina di un negozio fallito. Intanto, una scuola trasferita a distanza come se non ci fossero differenze di sorta, come se tutti gli studenti avessero le stesse possibilità di accedere agli strumenti e alla connessione digitale, come se non ci fossero quelle famose differenze economiche e socioculturali di partenza che la scuola in presenza, nel dettato costituzionale, dovrebbe risanare e che invece la scuola a distanza drammaticamente aggrava. Poi, mentre i docenti e gli studenti si affannavano a trovare soluzioni per continuare in qualche modo e in qualche forma un surrogato delle loro attività didattiche, uno stillicidio di provvedimenti annunciati sulle valutazioni formative e sommative, sugli scrutini di fine anno e sugli esami di Stato: provvedimenti annunciati che rimbalzano impazziti sui social (in cui si parla di docenti sessantenni esonerati dal servizio, di commissari con guanti, mascherina e visiera, di termoscanner all’ingresso, di distanziamento di almeno due metri dai candidati e così via delirando) che ancora oggi non chiariscono i termini del loro effettivo svolgimento.
Infine un documento agghiacciante sulla scuola che riparte (anche) fuori dalle mura in cui si dà per definitiva la scuola dell’era Covid e si invita a rassegnarci alla “pedagogia della distanza”, come se la prossimità, la vicinanza, la presenza, i corpi fossero, nella relazione educativa e nei processi di insegnamento e apprendimento, un dettaglio del tutto marginale e insignificante. Nel frattempo, al Miur si è insediata una task force guidata da un economista esperto in pianificazione aziendale e industriale che ridisegnerà la scuola del futuro. È notizia di oggi che la scuola riaprirà (forse) a settembre ma con il distanziamento sociale istituzionalizzato, con coorti di studenti scaglionati nei mesi, con molteplici turni, con tutti gli insegnanti con le mascherine (sic!). Ci saranno anche lezioni in plain air (ma certo, sappiamo tutti in che condizioni versano le nostre scuole sotto il profilo edilizio, strutturale e logistico, per il quale non è previsto neppure ora alcun tipo di investimento). Tutto questo, nella scuola e nell’intero Paese, senza che nessuno si faccia più la madre di tutte le domande: siamo definitivamente entrati nell’era Covid?