di Anna Angelucci
Vite Vuote. Il nostro bisogno di riconoscimento è impossibile da soddisfare
Elsa Godart
Giovanni Fioriti Editore, 2024
pp. 145
euro 22
Nobil natura è quella
che a sollevar s’ardisce …
ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra se confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor …
Leopardi, La ginestra, o il fiore del deserto
Quante volte ognuno di noi ha sperimentato una profonda, insostenibile, lacerante sensazione di vuoto interiore, di mancanza, di privazione, di assenza assoluta? A generarla può essere una reiterata condizione di solitudine, un’esperienza di abbandono, o una separazione, una perdita, un lutto: eventi e situazioni che accompagnano le nostre biografie personali, capaci di generare un sentimento che non riempie il nostro cuore come il dolore, bensì lo prosciuga, lo sgombera, lo svuota.
Elsa Godart, filosofa e psicoanalista francese, traccia, nelle pagine del suo “Vite vuote”, una mappa di questa condizione di vuoto interiore, percorrendone vecchie e nuove declinazioni. Vuoto ideale, vuoto spirituale, vuoto politico, vuoto sociale, vuoto etico, vuoto intimo, fino ad arrivare al vuoto narcisistico e al vuoto digitale, forme emblematiche del contemporaneo. Pur distinguendo tra i diversi contesti spazio-temporali, possiamo tuttavia riconoscerne cause ed effetti in un’ottica che appare comune a gran parte del mondo attuale: il vuoto ideale, correlato al dominio di una razionalità concreta che si configura come ingegneria sociale; il vuoto spirituale, come perdita per l’individuo e per la collettività di una trascendenza anche laica intesa come tensione teleologica verso il bene; il vuoto politico, sancito dal crollo del pluralismo delle ideologie, dalla perdita della loro tensione utopistica, dal venir meno di un corpo sociale legato da rivendicazioni condivise fortemente identitarie (la classe) e dalla sua sostituzione con una massa che aggrega individui isolati e privi di un progetto comune; il vuoto sociale, amplificato dalla mancanza di una direzione e di un orientamento politico in grado di alimentare la speranza in un futuro migliore; il vuoto etico, generato dalla sostituzione di valori come rispetto, considerazione, dignità, onestà, lealtà, fiducia, con una generale performatività del tutto indifferente a qualunque morale. Declinazioni del vuoto che sperimentiamo in prima persona e che osserviamo intorno a noi.
È su questo terreno inaridito che proliferano oggi le nuove forme del vuoto narcisistico alimentate dalle tecnologie informatiche e dagli inediti, pervasivi, ambienti digitali. Il modello capitalistico di produzione e consumo che ha sussunto l’intero assetto della nostra vita personale e sociale ha trovato in questi strumenti tecnologici nuove opportunità di estrazione di plusvalore anche agendo sulla nostra condizione esistenziale.
La rivoluzione virtuale e digitale ha definitivamente svuotato le nostre vite, dematerializzando il nostro rapporto col mondo ma instillando, allo stesso tempo, un estenuato antropocentrismo, generato non dal corretto riconoscimento della centralità della vita umana nella sua relazione con altre vite umane, ma da una esasperata tensione verso un’autorealizzazione di facciata, artefatta, rappresentata più che vissuta, nella solitudine irrelata che pervade la nostra comunicazione sui social. Vite vuote, appunto. Alla perdita di un sistema di valori collettivi e alla disintegrazione dei legami umani si accompagna la diffusione di un delirio autoreferenziale, alimentato dal contemporaneo iperindividualismo che ci vuole soli e incollati a uno schermo. Sempre connessi ma mai in relazione. Il risultato è un vuoto intimo in cui il rapporto con noi stessi è diventato patologicamente narcisistico. Risucchiati in una progressiva insignificanza – di noi stessi e del mondo – molti di noi si rifugiano in esistenze illusorie, verosimili ma non vere, sostenute da un riconoscimento sociale spesso inconsistente ed effimero.
Osserviamo il contesto in cui viviamo: negli ultimi decenni, e soprattutto dagli albori del terzo millennio, si sono sviluppate e imposte logiche di valutazione e di efficienza, sostenute dalle istituzioni nazionali e sovranazionali, dagli organismi regolatori, dai luoghi dell’elaborazione socioculturale e politica. L’efficienza oggi non dipende più dall’intensità, qualità e quantità, del lavoro programmato di ciascun individuo, ma riguarda ciò che accade tra gli individui e i gruppi di lavoro, in parte al di là di qualsiasi programmazione. L’organizzazione, intesa come qualità della cooperazione e delle interfacce tra gli attori di una catena produttiva, diventa il fattore centrale della performance, misurata oltre gli individui che la compongono. Questo nuovo modo di affrontare il mondo in termini numerici e imprenditoriali ha ridotto anche la parte più immateriale – sentimento, emozione, pensiero – del soggetto umano a fattori calcolabili: redditività, somma, valore di mercato, imprenditorialità, efficienza, produttività. “E l’obiettivo di farne qualcosa, affinché agli occhi della valutazione sociale quel soggetto umano che noi siamo non sia niente, significa paradossalmente ridurre a nulla tutte le nostre speranze” spiega con grande chiarezza Elsa Godart. Gli strumenti digitali hanno accelerato e intensificato questi processi di trasformazione dei nostri sistemi di produzione e di regolazione sociale, ma soprattutto i nostri processi di soggettivazione e di formazione della nostra identità umana, radicalizzando la profonda perdita di senso in cui ci dibattiamo.
Come possiamo affrontare questa nuova condizione esistenziale? Come possiamo contrastare questo soffocante horror vacui, questa mancanza generata dal venir meno di legami veri col mondo, questa perdita di contenuti morali, culturali, religiosi, politici, sociali che ci ha ridotto a un mero coacervo di bisogni fisiologici senza coscienza, prigionieri di un “autismo condiviso” in cui molti si illudono che la superficiale visibilità dei media possa equivalere allo sguardo empatico dell’Altro? Come recuperare una capacità di vivere, una intensità del vivere che non si riduca ad un semplice sopravvivere?
Ricucire un legame profondo con gli altri, riscoprire il valore della conoscenza dell’altro con la paziente e umile costanza del filosofo che non cessa mai di interrogarsi per capire: questa è la risposta dell’autrice. Ritrovare un legame autentico, che ci “obblighi” verso gli altri e che ci induca a recuperare il bene prezioso della comunità umana. Come scriveva Giacomo Leopardi, straordinario poeta-filosofo capace di restituirci con straordinaria visione la nostra condizione umana di sempre, dobbiamo stringerci nella “social catena”, unirci gli uni con gli altri, per “coltivare insieme la terra dentro di noi e rovesciare la dura roccia del mondo”.